Spettacoli - Requiem per teatri e auditorium
       
      Il sogno e il mondo infero
       
      Ho mandato la mia eroina giù, a capofitto nella tana di un coniglio,
senza sapere cosa sarebbe successo dopo (L.C.)
       
      E' veramente duro trattare di un sogno. Soprattutto quando questo sogno è sbranato da un altro sogno, che inizialmente sembrava semplicemente contenerlo. Da un sogno così ci si ridesta con una desolazione più feroce del rapimento, e non risponde a verità la credenza che, quando ci si accorge di sognare, il filo del nostro sogno si spezza; in realtà sono quelli gli attimi in cui si decide di creare, in sogno, ciò a cui da sempre, vagamente, ma con precisione crescente, il sogno stesso alludeva.

Così, dagli occhi luminosi e bendati del sogno, non può raggiungerci che un'immagine stranamente raddoppiata: lo sguardo obliquo di un mito che ciclicamente ripete se stesso.

Tutto comincia dal sogno di una ragazzetta, addormita sotto un libro rosso. La ragazzetta sogna la storia del suo libro, una storia d'amore e di viaggio. Già il libro conteneva il suo sogno, e lei addormita, e la sua storia sognata.
La ragazzetta si desta in sogno. Ma, o incompetenza! La sua storia non riesce, appare spaventosa e risibile, e le salta sulla testa come un mostro o una fiera, lampo di attimi inafferrabili.
La fiaba mitica è un'orditura incessante di tali attimi inafferrabili, fissati ad un massimo di splendore. Questo ritmo di viaggio rapinoso e lentissimo è proprio della fiaba mitica, delle sue esatte iperboli.

Requiem è una classica fiaba mitica, una storia d'amore e di viaggio, alla ricerca di un'incomparabile Meraviglia.

Così, si dia un evento essenziale per la nostra vita, lo riconosceremo alla luce del mito che lo investe, che lo scavalca. Miracolosamente, per qualche tempo, ne siamo al centro, lo decifriamo, e lo seguiamo in fondo al suo tunnel, senza pensare minimamente a come poi faremo a tornare.
Siamo allora nel vero sottosuolo, Ade Invisibile.

       
       

 

    Scrivere un Requiem
      liberamente tratto da Giorgio Manganelli, ascoltatore maniacale di Paolo Terni, Sellerio editore Palermo, 2001
       
     

“Mi pare di non avere mai parlato di musica direttamente, frontalmente direi. E questo mi pare sia un indizio di un uso della musica diverso da quello del musicologo, del musicista, o dell’ascoltatore in generale. Io non sono un buon ascoltatore. Sono un ascoltatore maniacale, perché mi interesso di strutture. Quindi io non ho niente da dire sulla musica se non in quanto l’accadimento musicale fa parte della mia personale cronaca mentale.

La musica è proprio... è anche un elemento... ha anche degli elementi puberali. Quindi è bene che venga incontro questo fantasma, questo ectoplasma melodico... è giusto, è sano, è perlomeno fondamentale, che venga incontro ad un... direi ventenne, o al più tardi ad un trentenne.

Ci sono forme musicali che sono state per me di estrema importanza e lo sono ancora. Ma mi rendo conto che sono state anche vissute e adoperate come degli emblemi intellettuali, psicologici direi, molto più che intellettuali.
Non c’è nessun motivo intellettuale perché io ami in modo così fanatico la forma Requiem, ad esempio. E però ci sono molti motivi psicologici, perché il Requiem comporta quell’affettuosa alleanza di eros e morte, di sterminio e di insediamento, che mi sembra sia molto accattivante per un giovane a metà strada tra il suo imponente infantile ed una sua potenza fantastica.

E non credo si tratti qui di un semplice uso mitico. Anche se abbiamo la narrazione di una fiaba mitica. E’ una cosa... cioè qui siamo già fuori dagli schemi in qualche modo fissati collettivamente nell’iniziazione fiabesca. Qui siamo dentro un’esperienza che è ormai personale, ma direi è insopportabile.
E’ il momento in cui la catalogazione del lutto si presenta sotto forma di una spaventosa malattia. Un’impresa impossibile... che richiede una forma di esorcismo. Che richiede una forma di intervento magico. Questo intervento magico in questo caso può essere un mito (anzi senza dubbio sono stati molti miti), e la musica è senza dubbio questo.

Nel momento in cui io mi rimisuro con questa forma (la forma Requiem), sì, in silenzio, o con discontinui frammenti musicali... mi sento di fronte a quello che mentalmente m’è venuto di chiamare una minaccia pedagogica. Non è un’espressione propria, anzi, è assolutamente impropria, ma visto che m’è venuta in mente, non vedo perché dovrei censurarla!
Cioè io mi trovo di fronte a una... a un’immagine che mi sfida in qualche cosa, su un terreno in cui già io, in qualche modo, sto cercando da tempo di provarmi. E’ una forma in cui viene disegnato un labirinto straziante e allo stesso tempo così... assolutamente direi immobile, così senza... esangue, senza... senza ferite, che è forse uno dei risultati più straordinari che si possono conseguire.

Voglio dire questo: “questo è il mondo della forma. Se tu riesci a toccarlo è questo. Ma non c’è nessun altro”. Tutto il resto è il mondo della psicologia, il mondo degli affanni, il mondo delle... delle...

Se io dico che il Requiem è una forma altamente angosciosa io la riporto nello schema del discorso psicologico. Quello che invece, per l’appunto, sento di non poter fare, è questo, cioè il Requiem mi presenta un discorso che adopera un materiale che io posso definire, in altra sede, psicologico, ma lo rovescia completamente, lo smonta.
Non accade più nulla di angoscioso e io mi trovo solo di fronte ad un’angoscia della struttura, ad un’angoscia della forma che non è più assolutamente dotata di capacità di pedagogia dolorosa. Non mi trasmette sofferenza. Mi trasmette quella... quella misteriosa fascinazione che è compatibile con qualunque grado di materiale dolente.

Per me è molto importante questa verifica, questa palestra, lavorare su una forma musicale tradizionale con un compositore, con un musicista contemporaneo. La musica ha conservato nella storia e custodito gelosamente una continuità retorica che dalla letteratura, dal teatro, è venuta molto prima ad essere messa in discussione, in dubbio. Sono storie differenti. Anche la tradizione pedagogica, le scuole musicali portano questa impronta.

E tuttavia esiste una specifica invidia dello scrittore, in letteratura e in teatro, verso il musicista, che è l’invidia di una... di una condizione particolare che al primo sembra infinitamente più libera e più inventiva, più naturalmente fantastica. Lo scrittore ha il problema di scrivere adoperando qualche cosa che si può presentare e descrivere come un significato e deve contemporaneamente liberarsi del significato.

E’ questa la macchinazione più angosciosa per lo scrittore. Lo scrittore sa bene che la sua scrittura, che la sua drammaturgia ha ben altro da dire che non dire... E questa condizione lo scrittore la trova realizzata nella musica in maniera particolarmente felice. Ora lo scrittore si trova sempre di fronte ai problemi della... della... come potrei dire?... metabolizzazione dell’assenza. Il musicista può superarli quando riesce a toccare un livello perfetto d’espressione e di forma.

E per questo affermo che questa è una palestra importantissima per il mio lavoro, perché il Requiem ha portato con sè questa potenza della musica: la capacità di toccare un materiale popolare... direi un’iconografia tradizionale, semplice, trasformandola in un’icona, trasformandola in qualche cosa di un’intensità specifica. E quindi è questo il debito, un altro debito al fascino di questa maga musicale, questa magastra, magalda: la capacità di usare il volgare, la volgarità.

E’ così difficile in letteratura e in teatro adoperare il volgare ed è così necessario! Noi stiamo in questo periodo... direi che siamo in un periodo in cui è molto... c’è una grande lite intorno all’uso della volgarità. Non c’è nessun significato al momento in cui viene recepita: è questo il punto affascinante... questa forma che era nata, diciamo, nell’ambigua ambizione di avere un significato anche popolare, nel momento in cui viene appropriata dal musicista, perde di ogni significato.

Ma il dramma del compositore non è diverso da quello dello scrittore. Il musicista si trova, diciamo, di fronte ad uno strumento che è molto più... che agisce molto più prontamente coi suoi incantesimi per modificare il significato, mentre lo scrittore, purtroppo, deve... deve portarselo dietro e deve ucciderlo passo passo!...

Non parlo di una modalità astratta della forma. Ci devono essere delle macerie specifiche, personali, per costruire questa impalcatura dell’impossibile. Sarà fatta sì di macerie, ma devono essere certe. E devono essere in qualche modo identificabili. Quindi... quindi... deve restare insomma... deve restare questa specie di ferita, che viene trasformata in un... contrassegno nobiliare.

E vorrei fare un cenno, un breve cenno alla questione dell’angoscia. Vorrei dire che l’accenno all’angoscia mi trova consenziente fino ad un certo punto, perché l’importante è che l’angoscia coesista col gioco, coesista continuamente con la... non so se la liberazione o la schiavitù della forma, ma certamente con qualcosa che affronta, sfida e contemporaneamente coniuga l’angoscia...

Credo che non ci sia altro gioco in arte. C’è sempre qualcuno costretto a danzare finché muore.

Signori ascoltatori, vi buttiamo ora in faccia per finire, proprio come in un circo, e questo forse più si addice alla nostra vera natura che non a quella di teatranti, compositori, musicisti, scrittori, critici, fabulatori, teorici, fantasticatori, letterati, psicologi, antropologi... quella appunto di imbonitori... vi buttiamo in faccia...

REQUIEM, di Fanny & Alexander.
20, aprile 2001”

       
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