Inédits
       
      Rubrica di testi rari e/o inediti.
       
     

GOLD
di Luca Scarlini

ORO
di Eugenio Sideri

       
  immagine:
S. Salgado
   
       
   

GOLD

di Luca Scarlini

dedicato a Friedrich Dürrenmatt

Stesura definitiva: 9 settembre 2003

Gold parte da una occasione peculiare legata alla memoria di Friedrich Dürrenmatt, di cui la Galleria d'Arte Moderna di Bologna ha presentato per la prima volta in Italia il corpus delle opere grafiche, che hanno accompagnato tutto il suo lavoro, mentre Marcos y Marcos manda in libreria uno degli ultimi testi: Mida e lo schermo nero, a metà tra cinema dell'impossibile e narrazione per frammenti. Da queste suggestioni si sviluppa quindi una riflessione scenica sul potere dell'oro, di cui un aggiornato e non meglio definito Mida contemporaneo, anche troppo lieto del proprio potere di trasformare tutto nel "nobile" metallo, tesse le lodi e canta il fato. Il teatro dello scrittore svizzero, recuperato negli ultimi anni dopo un periodo di minore attenzione, privilegia il grottesco come modalità di indagine sul reale e Gold ne riecheggia i percorsi, raccontando un' ossessione tremenda, che è in primo luogo una visione del mondo.
L’evento ha debuttato il 16 ottobre ’03 in occasione di “Friedrich Dürrenmatt - dipinti e disegni”, alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna.
In collaborazione con Marcos y Marco e il Centro Culturale Svizzero.

 

   
     

Sullo sfondo l’immagine de L’ultima assemblea alla Banca Federale di Friedrich Dürrenmatt o, qualora fosse possibile, il quadro stesso. L’attore–personaggio parlotta tra sé, è vestito di bianco; accanto a lui alcuni oggetti dorati (un vaso o qualsiasi altro accessorio con una serie di monete sullo sfondo. Vanno benissimo anche quelle di cioccolata, anzi più sono improbabili e meglio è, come nel testo dürrenmattiano, vorrei che il personaggio-attore avesse una biro dorata con cui scrivere indefesso su fogli grandi simili a lavagna, in cui di tanto in tanto appunterà le sue teorie; mentre inizia la sua conferenza-conversazione, si sente un po’ intelleggibile e un po’ quasi completamente inudibil, per frammenti, e Oro di Mango nell’interpretazione di Loredana Bertè, come se venisse da una radio con dei gravi problemi al transistor).

Me lo ricordo bene quell’anno, fu tutta una complicazione. Fino a poco tempo prima tutto andava a gonfie vele, mi sembrava di essere al culmine della felicità. Erano decenni che i dividendi crescevano a vista d’occhio. Ma poi era venuta la recessione, la crisi; io a quella riunione in banca c’ero, sono uscito solo cinque minuti prima che scattassero quella fotografia. Non ci posso far niente: le riunioni di famiglia mi rendono triste, non ce l’avevo fatta a rimanere con i miei colleghi che celebravano il lutto perché le loro azioni e obbligazioni erano diventate carta straccia, mi annoiavano. (L’attore-personaggio è completamente inondato da una violentissima luce color oro). Quelli là, d’altra parte, erano dei dilettanti, per loro l’oro (se mi distraggo un attimo mi vengono pure i giochi di parole - ridacchia) era una necessità più che un fine. Per me è diverso, io vivo per quello e non venitemi a dire che sono una caricatura da due soldi di Paperon de Paperoni o un Arpagone di maniera. Se mi dovete criticare, almeno trovate degli argomenti più plausibili, perché a questi non ci crede proprio nessuno! Tutta invidia e rancore: non capisco che abbiate da essere tanto rancorosi, tutti possono avere il loro oro, anche voi, ma bisogna seguire le regole e le regole sono ferree ed è inutile che speriate che io vi regali il mio, poveri illusi!

Parte in sordina Gold degli Spandau Ballet, che poi diviene sempre più forte, ma senza esagerare. L’attore-personaggio la canticchia nel modo più stonato e fuor di sesto, producendo infine dei suoni che cancellano la song e le si sostituiscono.

Che c’è? Non si può nemmeno pregare? Ognuno ha diritto di credere in quello che vuole e io non credo in niente che non abbia colore giallo. Pepite, filoni, polvere, monili, gioielli, lingotti, sbarre, mattoncini, mi va bene perfino la placcatura, se è fatta bene. Beh, c’è poco da dire: la storia dell’umanità ha toccato un unico apice nella sua disastrosa trama di fallimenti: re Mida. Quello è l’unico uomo per cui abbia mai provato invidia, che è un sentimento che non ho mai avuto il tempo di avere, anche se il finale della sua storia mi fa arrabbiare. Ma vi rendete conto: a quello venne in mente (chissà chi glielo aveva messo in testa? Senz’altro qualcuno che lo invidiava!) che trasformare tutto in oro fosse una maledizione e per questo pregò Dioniso di liberarlo dal suo potere, perché ne aveva paura, terrore, una fifa matta, sì figurati! Che occasione sprecata! Che perdita per l’umanità!


Un attimo di pausa, l’attore si fissa su un qualsiasi oggetto dorato e con una voce piena di desiderio dice:


Il vino si trasformava in quella bocca in liquido oro, tutte le ragazze che toccava diventavano statue e popolavano il suo letto di metallici trionfi. Il re viveva in un presepe a ventiquattro carati, non c’era cibo che riuscisse a passare indenne da quelle labbra aride e felici; aride per la polvere d’oro che sfregavano continuamente, felici perché tutto ciò che baciavano diventava eterno, senza più dover subire compromessi osceni con la vita. Da allora, da quando lessi quella storia (avevo poco più di nove anni) l’oro è diventata la mia missione e la mia carriera. Poco dopo mi sono imbattutto anche, ridendo a crepapelle, nella vicenda dell’uomo che per me da allora è il simbolo del fallimento e dell’idiozia dell’umanità: Johann August Suter, che voleva impedire la corsa all’oro in California, perché gli danneggiava i raccolti di mele e pere. Ne aveva fatto un caso personale, gli era presa talmente male che quello a momenti faceva una guerra contro i cercatori che poi giustamente lo fecero fuori! Ma si può essere più scemi di così!
Dicono che il denaro è lo sterco del diavolo, ma non è vero, quello vale solo per la cartamoneta. Quella schifezza che diventa sempre più laida ogni volta che viene toccata, io non l’ho mai potuta sopportare. Ogni tanto, per quanto faccia lavorare tutti i miei segretari come matti per risolvere questo problema, mi tocca toccarla e mi viene il voltastomaco: è come un bruco schifoso e il suono che fanno le banconote quando si accartocciano, mi fa accapponare la pelle, come se stessi schiacciando un plotone di lumache con antenne lunghe, lunghe che mi fanno il solletico e mi lasciano una bava urticante, che brucia, brucia! L’oro invece è pulito, mi ci posso specchiare, mi ci posso perfino lavare le mani e la faccia. Mi sono fatto anche una clessidra piena di polvere d’oro, perché niente meglio di questo mi fa capire che il tempo passa, ma io sono sicuro che se l’oro lo pago abbastanza bene e gli sacrifico abbastanza metallo, allora il tempo passerà come voglio io. L’oro è un riparo, una difesa, una passione e una ricerca, un lavoro e una religione: I believe in Gold! (un eco debole e distortissimo della stessa canzone degli Spandau Ballet, a cui l’attore-personaggio fa eco).


L’attore-personaggio si rivolge ai suoi malcapitati ex-colleghi della Banca Centrale. Torna l’immagine del quadro.


D’altra parte si è sempre parlato di un’età dell’oro, mica del cemento o del polistirolo! (Compare, dissolvendosi l’immagine precedente, L’età dell’oro di Pietro da Cortona, che il personaggio-attore contempla con avidità). Lo so anch’io che è tutta una metafora, ma non sarà mica stata usata per caso; gli antichi volevano dire che nell’età in cui l’oro sarebbe stato messo al primo posto, allora e solo allora la felicità sarebbe stata generale. (si mette a cantare una canzone, prima biascicandola a più non posso, poi in modo sempre più chiaramente distinguibile, si tratta de L’età dell’oro di Leo Ferrè, da cantarsi con tutta la possibile sgangheratezza da chansonnier)

Noi avremo un pane
Dorato come le ragazze
Sotto i soli d'oro
Noi avremo un vino
Di quello che frizza
Anche quando dorme
Noi avremo un sangue
Dentre le vene bianche
E per sempre allora
Lunedi sarà domenica
Ma la nostra età
Sarà l'età dell'oro
Noi avremo letti
Scavati come ragazze
nella sabbia fine
Noi avremo frutti
Quelli che si graffignano
Nel campo vicino
Noi avremo certo
Dentro le case smorte
Tutti i lampioni azzurri
Che lassù se ne vanno
Ma la nostra età
Sarà l'età d'ell'oro
Noi avremo il mare
A due passi dalla Stella
Nei giorni di gran vento
Noi avremo l'inverno
Con una cicala
Nei capelli bianchi
Noi avremo l'amore
Dentro i nostri problemi
E i nostri discorsi
Finiranno con "ti amo"
Venga venga allora
Venga l'étà d'ell'oro

Avete sentito che bella favola, riscalda il cuore, ma c’è un errore grave: l’autore sbagliava il mezzo con il fine, le ragazze con l’oro, che dilettanti ‘sti letterati!
Lo so anch’io che certi passatempi non sono tanto salutari, ma per l’oro questo ed altro. Non c’è limite al mio desiderio, non c’è freno alla mia passione. Io lo mangio, poi lo trasformo in rifiuto ed è sempre oro. E’ l’unica materia al mondo che non subisce mai alterazioni; gli posso fare quello che mi pare e lui mi rimane fedele per l’eternità e non mi tradisce mai. (si interrompe per un attimo) Come? L’oro non fa la felicità? Posso comprarci il corpo di qualcuno, ma non il cuore? E a me che me ne frega del cuore? Quel che voglio io invece è proprio il corpo. Quando noleggio una ragazza dai miei soliti fornitori, voglio che sia vestita d’oro, sono io che passo alla ditta una serie di oggetti cerimoniali e voglio che la ragazza di turno li indossi tutti quanti prima di avvicinarsi a me, se no non le ammetto nemmeno a casa mia. Poi le dipingo tutte d’oro; quelle all’inizio recalcitrano, urlano; poi ricordo loro che prenderanno un bel po’ d’oro per essere dipinte d’oro (ho una mia tradizione, per cui le pago con un sacchetto di monete antiche, talleri o ghinee e quelle quando lo aprono fanno un sorriso a trentadue denti, che mi dà una gran soddisfazione) e allora, come per magia, stanno zitte, quelle galline e fanno quello che voglio io. Non è vera quella storia che se gli dipingi la pelle tutta d’oro, poi muoiono perché la pelle non respira più. Scemenze: l’ho fatto centinaia di volte e poi basta una passata di spugna per toglierlo. Però mi dispiace e ci metto un bel po’ a staccarmi da quei corpi decorati, passo ore a rimirarli. Quello che mi piace e che mi interessa è specchiarmici. Quelle ragazze d’oro sono il mio specchio: l’immagine della mia anima.


Musica L’amore di Danae di Richard Strauss – immagine Mabuse, L’amore di Danae
L’attore-personaggio si guarda allo specchio, parla sottovoce, è come se si stesse raccontando una favola ed è esattamente questo che fa, si/ci racconta una storia come illusoria pausa lirica nella sua crudele disamina metallica. La musica di Strauss che narra l’episodio della seduzione e dello stupro per tramite della pioggia d’oro, rimane fino alla fine del racconto in sottofondo, mutandone l’intensità a seconda della bisogna.


Danae era figlia del re Acrisio: una sibilla disse al monarca che il figlio di sua figlia, la belliiiissiiiima e da tuttiiii amaaata Danae, lo avrebbe ucciso. Per questo egli la chiuse nella stanza più nascosta del suo palazzo, nel più tetro sotterraneo, nella carcere più crudele, serrando ben strette le catene. Eppure l’oro si fece strada fino a lei e fu salva e la profezia si avverò puntualmente. Giove si trasformò in finissima polvere e penetrò fino a lei; la pioggia d’oro esaltò la ragazza che divenne, secondo le regole, madre del futuro assassino di suo padre, (improvvisamente il tono da elegiaco si fa decisamente cattivo e sarcastico) bla, bla, bla, bla, bla, bla, bla. C’è poco da dire: la parte finale di questa storia io non l’ho mai sopportata. La predestinazione mi annoia quanto l’obbligo del lieto fine, la morale per me è un’altra: niente ferma l’oro. Il metallo scorre e spunta fuori dalle viscere della terra e va dove gli pare trovando tutte le strade più imprevedibili per giungere alle mète che gli interessano.
Un giorno mi aveva chiamato un mio amico finanziere e mi aveva detto: vai nella Sierra Pelada in Brasile e compra un appezzamento di terreno e io l’ho fatto, subito: trentadue ettari. Sono stato io, sì proprio io, a inventare quel sistema che non falliva mai. (parte una fotografia o anche più di una della serie di Sebastiano Salgado sulla Sierra Pelada con i garimpeiros che scalano faticosamente la montagna con le gerle in spalla, il personaggio-attore ridacchia). Tutti quei cercatori che andavano là credevano di essere liberi, ma invece guarda un po’ erano tutti miei schiavi; ero io che gli vendevo da mangiare e da bere e dovevano ballare sulla musica che volevo io. Dovevano arrampicarsi sulla motagna (indica con fare didattico e professorale la o le foto di Sebastiano Salgado), spaccarsi la schiena e riportare giù ogni volta un sacco pieno di fango. Alla fine della giornata potevano scegliere uno dei sacchi che avevano trasportato e tenerselo, dentro poteva esserci la ricchezza, la libertà, oppure niente. Beh, guarda caso, per lo più non c’era niente, ci pensavo io che le cose andassero così che se no poi quelli si montavano la testa, comunque mi erano tutti grati: vorrei vedere: gli vendevo la speranza! Quella vale tanto oro quanto pesa e tutti sono disposti a tutto per non perderla. Ogni mese andavo in pellegrinaggio a vedere il raccolto d’oro: era un momento sacro, mi chiudevo in una baracca di legno che mi ero fatto costruire e poi passavo il tempo in ammirazione delle pepite che avevano trovato i miei schiavi, alcune simili a pigne, altre a sfere, altre ancora informi quanto enormi e simili solo all’oro, nel suo massimo fulgore. Poi è stata una tragedia, quella miniera l’hanno chiusa e ora l’oro mi tocca andarlo ad adorare nelle banche e non è proprio la stessa cosa, il rapporto è meno carnale e poi ci sono quegli sguardi rancorosi dei cassieri, dei contabili, che son sempre a spiarti, quando vai alle cassette di sicurezza, ma bisogna accontentarsi, con i tempi che corrono. Di recente ho fatto un sogno:
Mi muovo verso la mia Mercedes color oro, quando una ragazza con un dalmata si manifesta. Il marciapiede è strapieno, è come se lei passasse attraverso la folla, io le vado dietro, perché so che lei vuole che io la segua, e così arriviamo in centro, nella zona pedonale, in quella piena di negozi di orefici dove passo il tempo. Entro in un mondo fatto d’oro, l’oro turbina in cielo, l’oro piove dalle nuvole, l’oro lastrica la strada. Passo davanti a gioiellerie, vetrine con bambole alla moda che hanno facce, spalle, braccia, mani e gambe d’oro, come reliquie di santi immaginari di secoli da troppo tempo dimenticati. Un’altra vetrina è piena di maschere dorate, che luccicano in modo incredibile, fanno quasi male agli occhi. La ragazza apre un portone. Quando raggiunge il portone, è chiuso. Il palazzo stona con il centro storico restaurato. All’improvviso si sente un ronzio e il portone si apre. Pareti nude, una scala a chiocciola, infine una porta di legno marcia. Non è chiusa a chiave: una stanza semplice, alcune poltroncine, una scrivania, un televisore, un’altra stanza, un tavolo, alcune sedie, una stanza da letto, sul grande letto la ragazza, nuda, davanti il dalmata. Mi prende un desiderio sfrenato e di cui ben capisco il motivo. Il desiderio sfrenato di continuare a vivere, di vivere in eterno, di vivere nella dorata immagine di me, nella rifrazione di infinite maschere d’oro. Mi strappo i vestiti di dosso e mi getto sulla ragazza, ma lei è tutta d’oro. Nell’aria c’è un rumore stridente. Cicale d’oro friniscono…
Beh, più che un sogno è un desiderio, mi sono poi svegliato, finalmente consolato e ho pensato a Pluto, il dio della ricchezza. Per gli antichi era cieco, perché le sue regalie dovevano colpire a caso, senza discriminazioni né distinzioni. Che consolazione per i poveri, quella di credere che in definitiva per loro c’è sempre una ultima chance, anche senza far nulla; che basta aspettare e i soldi ti cascano addosso dal cielo! Non è così, ve lo garantisco: l’oro non va guadagnato e basta, va propiziato, attratto, lusingato, sedotto, implorato e soprattutto ringraziato: è come avere a che fare con un essere umano, anzi di più. Non si può credere di trovare il grande amore della propria vita solo affidandosi al sogno, bisogna darsi da fare. Agire. L’oro ama l’azione, è l’unica cosa che gli piace, quello è l’unico modo di procacciarsi il suo rispetto, di farsi prendere sul serio. E pensare che c’è chi dice: “non vi fidate dell’oro anche portato in dono. L’olio d’oliva può servire per pagare bilanci. Lo zolfo e i vetri di Venezia possono servire a pagare bilanci”, ma sì, figurati, povero illuso! (Comincia a infervorarsi sempre di più, urla, è scomposto, ripete la stessa formula più volte, all’inizio come un mantra e poi con sempre maggiore violenza) In Gold we trust. In Gold we trust. In Gold we trust. In Gold we trust. In Gold we trust. Tutto il resto non conta, non conta niente. (Parte Goldfinger nella versione remix dei Propellerheads, lentamente diviene sempre più forte e il lunghissimo acuto finale cancellerà tutte le parole) Non contano le lettere d’amore (brucia una lettera), non contano le dichiarazioni d’amicizia (brucia un altro foglio), non conta nulla, proprio nulla, a parte l’oro.

Mentre esplode la musica, torna l’immagine del quadro iniziale, una luce color oro avvolge il personaggio, che fa a pezzi freneticamente dei fogli di cartamoneta del Monopoli.

The End

       
  Foto dallo spettacolo: Gold
regia di E. Sideri
   
       
    Oro

Ri-scrivere il mito. Breve viaggio negli inferi
tra Frederich Dürrenmatt e Luca Scarlini


di Eugenio Sideri

È da circa due anni che lavoro sul mito: dal mito parto per arrivare ai testi, specialmente a quei testi dove il mito è ri-proposto, ri-scritto, ri-pensato. Così è stato con Filottete e Heiner Müller: un incontro tra mito e Storia dal sapore ferocemente attuale.
È cominciato così lo scavo, la ricerca verso una ri-scrittura che avviasse una verità al di là delle parole scritte, al di là della letteratura. Quelle parole dovevano diventare teatro. E in quanto teatro, carne e corpi e voci.
Mi accingevo ad un viaggio verso l’ignoto della scena. Le prove del Filottete avrebbero avuto inizio il 12 settembre 2001. Cercavo un “compagno di viaggio” che mi aiutasse a rendere sulla scena quelle parole ri-trovate. A luglio raccolsi al volo un’indicazione di Marco Martinelli: leggere La Divina Mimesis di Pier Paolo Pasolini. Ed il 16 luglio ciò avvenne.
“ Come testimonia una lettera a Luciano Serra del settembre 1945, Pasolini da giovane provava verso Dante l’insofferenza e la diffidenza che provava per i padri. Ma a Roma nel 1950 chiede aiuto a Dante per scendere nell’inferno delle borgate”.
La sottolineatura risale alla mia prima lettura del 16 luglio, appunto.
Chiedevo e cercavo aiuto verso un viaggio nell’inferno del blankverse mülleriano. E lentamente lo trovai nelle creature che avevo in scena, i quattro giovani attori con le loro storie, quelle di ogni giorno, della loro adolescenza, dei loro amori e del sesso, del calcio del cibo delle moto.
Ma ogni viaggio è a sé stante e i compagni di viaggio, quelli di carne e quelli metaforici, cambiano.
Due anni dopo Luca Scarlini mi propone la realizzazione di una performance: Gold. L’evento parte da una occasione peculiare: il Centro Culturale Svizzero presenta per la prima volta in Italia alla Galleria d'Arte Moderna di Bologna il corpus delle opere grafiche di Friedrich Dürrenmatt. In concomitanza la Marcos y Marcos mandava in libreria uno degli ultimi testi: Mida e lo schermo nero, a metà tra cinema dell'impossibile e narrazione per frammenti.
Leggo in anteprima dell’uscita editoriale il testo di Dürrenmatt: un fantastico delirio visionario tra realtà e finzione, sia teatrale che cinematografica. Una re-invenzione del mito di Re Mida, spostata su vari livelli reali ed immaginari che tra loro si intersecano. Mi piace molto l’invenzione di Dürrenmatt, il suo modo feroce e senza scrupoli di impossessarsi del mito e farne altra carne, darne altra vita.
Accetto di realizzare l’evento, sgomento di cosa potrò fare e ancor più spaventato alla notizia che Luca ri-scriverà a sua volta un adattamento del testo dürenmattiano, ma, invece di un adattamento emerge una drammaturgia originale, che mantiene di Dürrenmatt solo il riferimento a Re Mida, declinato in altre forme.
La discesa pasoliniana ha di nuovo avvio: questa volta mi accompagnano le parole, le musiche e le immagini che Luca mi propone.
Nascondo l’attore, o meglio, faccio finta in un primo momento di non vederlo. Penso esclusivamente all’ipotesi di messa in scena.
Anche Dürrenmatt, dopo un po’, scompare. Resta l’alone del mito, il suo essere inconsistente ma presente con energica vitalità nelle parole scritte da Luca. Resta, e non è affatto poco, il testo di Luca che ormai ha travalicato l’autore svizzero divenendo forma letteraria autonoma.
Con Luca vedo sorgere un primo corpus di materiale testuale, infarcito di tutti i riferimenti possibili all’oro, al suo mito ed alla sua mitizzazione. Il suo testo cavalca immagini, musiche e storie - si va dal mito classico di Re Mida alle foto di Salgado alla Sierra Pelada brasiliana, passando per l’Amore di Danae, Goldfinger, fino a Gold degli Spandau Ballet, efficace citazione degli anni ’80.
La scrittura di Scarlini mi offre un ventaglio di possibilità: il suo testo mi si propone come drammaturgia in esubero, vero e proprio materiale che potrebbe anche essere già pronto per la scena. Forbici alla mano, e con la compiacenza dell’autore, comincio a tagliare, disegnando l’abito scenico all’evento e all’attore. Lo scambio epistolare tra me e Luca continua fino a quando il testo e la sua ipotesi scenica ci sembrano ottimali: a questo punto comincio le prove.
Con Enrico Caravita, l’attore protagonista dell’evento, comincio a costruire una creatura che dell’oro ne ha fatto una lucida follia, una maniacalità dal sapore religioso che lambisce la pazzia. Faccio indossare infatti ad Enrico una veste bianca, lunga, un po’ tra un abito sacerdotale e una camicia di forza. Lui, il protagonista-personaggio, è consapevole che riceverà ospiti, che sarà fulcro dell’osservazione dei visitatori. Su tale considerazione costruisco la scena sottolineando proprio questo aspetto, cioè la presenza di estranei al soliloquio del personaggio. Così nasce l’idea di usare un walkman su cui la creatura in bianco conserva memorie e racconti, pronti ad essere ogni volta riavvolti col rewind e riascoltati, rimessi in circolazione per le orecchie dei visitatori. Rinchiuso nella nicchia dorata di Mario Botta, con uno sfondo completamente d’oro interrotto solo dal quadro di Dürrenmatt “L’ultima assemblea generale della Banca federale”, Enrico lascia sfogo al delirio delle parole, invocando-evocando un oro santo, un oro-essenza capace di donare felicità.
La ricchezza non c’entra, non c’entra più: l’oro si pone come algida essenza unica in grado di salvaguardare il protagonista. Chi da essa si discosta, muore. È la fine infatti dei colleghi banchieri rappresentati nel quadro e citati in scena come noiosi colleghi: impiccati ai lampadari, seduti con pistole alle tempie, sbattuti a terra spezzati e come fantocci disossati.
La verità, se in tale delirio-confessione-preghiera di verità si può parlare, l’unica verità appare, lucida e sferzante come l’oro, nella maschera che il protagonista indossa. Una maschera dorata che gli taglia il viso a metà, che riflette il luccichio del totem dorato - unica presenza in scena oltre all’attore, omaggio a Gold di Felice Nittolo, mosaicista e scultore - e al totem rimanda colore e calore. La verità sfugge, restano solo racconti impressi sul walkman; la voce e i gesti ormai sono delirio, follia impressa negli occhi di chi guarda. Resta un’essenza vivida, un’odore mentale, una forma dell’anima. Oro.

 

   
     

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