Rassegna stampa - Interviste
       
     

Azzurra D'Agostino, Il tempo in cui volavano i teatri. Intervista a Francesca Mazza

Marco Petroni, Cancellare le parentesi

Alessandro Fogli, Fanny & Alexander riparte da Lawrence d'Arabia

Franco Gàbici, Fanny & Alexander come una Bottega d'arte

Alessandra Vindrola, Fanny & Alexander - Il nostro viaggio nel West di parole

Graziano Graziani, La magia al potere: intervista a Chiara Lagani

Eva Costa, Il doppio fragile di Fanny & Alexander

Rodolfo Sacchettini, Da “Dorothy” a “Him” le nuove direzioni di Fanny & Alexander

Antonio Caronia, The vertigo of enigma

Gilberto Santini, Il teatro di Fanny & Alexander, un gioco tra vita e morte

Rossella Battisti, "Romeo e Giulietta": tutti pazzi per la coppia

Francesco Scarpelli, Niente è più grosso e più dolce di due...

       
       
Torna ad inizio pagina   Il tempo in cui volavano i teatri. Intervista a Francesca Mazza
      Azzurra D'Agostino, Krapp's Last Post, www.klpteatro.it, 26 aprile 2012
       
     

In occasione del ventennale di Fanny & Alexander, dal 5 al 21 aprile si è svolto a Bologna “Progetto Oz” che, assieme a Elena Gioia, ha portato in città una serie di appuntamenti dedicati a uno degli snodi emblematici del percorso artistico della compagnia. Ne abbiamo seguito una tappa (la replica di “West” al Teatro delle Celebrazioni) per incontrare una delle più significative delle nostre attrici. Abbiamo così intervistato Francesca Mazza, tenendo il romanzo per l'infanzia di L. Frank Baum a guida di un viaggio nel “Meraviglioso mondo del teatro”.

Il personaggio che ami di più o hai più caro nel Mago di Oz, e perché.
La risposta è banale, ovviamente la protagonista, la piccola e mite Dorothy. E’ un personaggio molto riuscito... chi non vorrebbe essere lei? Ha questa innocenza, persino quando fa il male è un male che è in realtà un bene. Inoltre ha coraggio, intraprendenza. Per me Dorothy è un'età, o meglio un tempo: il tempo del coraggio, della caparbietà, della fede, nel senso che lei crede che tutto sia possibile, tutto quello che le accade non desta sorpresa in lei perché ancora non conosce che ci sia una limitatezza nel nostro essere, e quindi si abbandona a questa avventura, coraggiosamente. Il primo atto di coraggio, che è quello che forse anche più me la fa sentire vicina ed amata, è quello di salvare il suo cane: la molla di tutta la vicenda è legata al fatto che lei scappa di casa per salvarlo.

Parliamo di drammaturgia: come sono nati, in questo caso, i testi? E come ci si specchia in Dorothy da attore (autore)?
Essendo “West” l'ultimo capitolo di tutta una teoria di spettacoli, c'è stata una sorta di progressiva germinazione di questo lavoro. Partendo dal primo, “Sconcerto per OZ”, in cui io oltre a essere una delle tante Dorothy ero anche il leone - e quindi colui che va dal mago a chiedere il coraggio - nella tappa successiva (che per quanto mi riguarda è stata “Emerald City”) mi è stato chiesto di comporre una specie di confessione in cui dire quale tipo di coraggio avrei chiesto al mago. Io ho risposto: “il coraggio di dire di no”, e proprio partendo da questo ulteriore passaggio siamo arrivati a “West”. Ci sono stati una serie di incontri tra me e Chiara Lagani; lei sollecitava in me delle riflessioni e anche dei racconti attinti dalla mia biografia personale, e così è nato il testo che è sì ampiamente autobiografico anche se mescolato e confuso con frammenti tratti dall'opera di Baum e addirittura dai discorsi di Berlusconi.
C'è stato un momento nel corso delle prove in cui mi sono resa conto di quanto personale fosse questa mia esposizione e sono un po' andata in crisi, mi son chiesta quanto fossi disposta ad espormi così. Nel momento in cui sono in scena però sono in un meccanismo talmente particolare che quelle sono sì storie mie, ma in realtà smettono di esserlo e divento una specie di tramite, di avatar, in questa vicenda.

La costruzione della partitura fisica, la sua genesi, e poi abitare i gesti: quale agio/disagio, se sono di contrappunto alla parola, o quale relazione musicale/ritmica hanno con essa?
Il lavoro dello spettacolo in questo senso è davvero collettivo, perché se partiamo per esempio dalla musica, che non è la stessa ogni sera, un certo brano può spingere Marco Cavalcoli, che mi dà gli ordini sulla partitura gestuale, a farmi fare un certo ritmo. Questo ritmo fisico mi porta a dire le battute che sta suggerendomi Chiara Lagani in un certo modo, e Chiara mi fa dire le battute perché sto facendo quel gesto, poi a quel punto magari Marco sposta il gesto da un'altra parte... quindi il lavoro è essenzialmente collettivo, anche se in scena sono sola. Ci sono delle regole di contagio interno fra tutti e quattro: tra il dj-set, Chiara che mi dà il testo, Marco che mi dà i gesti e io che li eseguo. Non ho un tempo, se non forse un po' nelle parti iniziali, in cui decidere come fare il gesto o come dire la battuta, perché immediatamente sono incalzata da altri gesti e altre battute. È un lasciarsi attraversare. È curioso, perché non puoi che stare in uno stato di svuotamento per poterti far attraversare, ma nello stesso tempo quello che ti attraversa è qualcosa di profondamente tuo, e quindi non so spiegarti altro se non che è uno star dentro e nello stesso tempo sentirsi abitata.

Hai fiducia? Ovvero: uno spettacolo può uccidere la strega dell'Ovest? O se non la uccide, ci può combattere?
Non la può uccidere ma ci può combattere, credo proprio di sì. Ho visto – per fare un esempio se vuoi abbastanza scontato – spettacoli infinitamente più potenti di tanti discorsi politici. Perché la politica dovrebbe poi riguardare la polis, riguardare il cittadino, la nostra etica, le regole che ci diamo, le decisioni che prendiamo... Ecco, io credo di aver visto spettacoli infinitamente più potenti ed efficaci di quello che invece viene spacciato per “politico” o per riflessione politica.

I nemici sono davvero sempre altri, lontani: streghe, distanze, malattie venute dal di fuori a sproposito, cani o uomini feroci?
No. Se vuoi, la confessione più cruda in “West” è quella che chi non sa dire di no è un po' nemico a se stesso... Non credo che i nemici siano sempre gli altri; credo che la prima persona con cui dovremmo imparare a fare pace siamo noi.

L'uragano porta via la casa. Immagino saprebbe far volare anche i teatri. Ci stanno del resto provando in molti. Chi sono stati o chi sono i tuoi compagni di viaggio con cervello, cuore e coraggio che hanno fatto di te l'attrice che sei e reso il viaggio possibile e duraturo?
Ci stanno riuscendo, a far volar via i teatri. In quanto ai compagni che hanno reso me stessa e il mio viaggio quello che sono: assolutamente tutti quelli che ho avuto. Nessuno escluso. Ho avuto molta fortuna perché ho avuto dei maestri, a partire da Alessandra Galante Garrone, che è stata la mia maestra a scuola e che ha sempre avuto molta fiducia in me. Quando è morta Alessandra, perché purtroppo certi pensieri si fanno sempre quando le persone non ci sono più, mi sono resa conto di quanto, in certi momenti della mia vita di sfiducia, di sconforto (che capitano a tutti e magari non solamente dal punto di vista professionale), l'idea che lei avesse avuto fiducia in me e che mi stimasse e che pensasse che fossi una brava attrice... quanto mi ha sostenuto in quei momenti! Come dire: un attimo, quella persona credeva in me e quindi vuol dire che ci devo credere anche io. E dopo Alessandra sicuramente Leo [De Berardinis, ndr], perché lui è stato un grande maestro, ho lavorato con lui 12 anni e non è stato solo un maestro per quanto riguarda il mestiere dell'essere attore, ma per quanto riguarda il pensiero del “come” stare nel teatro, di come essere attori. E dopo Leo io... io non mi sono arricchita con il teatro [ride], già ci vivo e mi sembra un grande privilegio rispetto purtroppo a un grande numero di colleghi, però quello di cui vado assolutamente fiera è il mio curriculum. Ho sempre fatto cose belle, cose che avevano un senso, al di là se vuoi della riuscita.

Cosa ti colpisce di un bravo attore? Quando un attore è bravo per te?
La naturalezza, la sensazione che non sta facendo nessuna fatica a fare quello che fa. Al di là di performance che richiedono una fatica fisica, ecco che tu spettatore vedi che non sta rincorrendo un risultato, ma è semplicemente, è naturalmente quella cosa che sta facendo. Un'altra cosa che amo molto negli attori è quando riescono a non aver bisogno di esibire la loro bravura, di mostrare quanto sono bravi, ma semplicemente riescono a essere al servizio di un'idea, di una visione teatrale, di uno spettacolo, di un'energia che viene messa in campo. Ecco, questo è quello che amo negli attori.

Svelaci uno spettacolo che ti è piaciuto, diciamo… un consiglio come lo daresti a un amico.
Uno spettacolo recente. Ho visto, purtroppo solo la IV tappa, di questo viaggio che è “L'origine del mondo” di Lucia Calamaro. L'ho adorato. Ho trovato Daria Deflorian bravissima, la drammaturgia molto interessante e la regia nitida. L'ho veramente amato molto.

       
       
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      Marco Petroni, Abitare, www.abitare.it, luglio 2011
       
     

Archeologo, agente segreto, ufficiale britannico, scrittore, Lawrence d’Arabia fu soprattutto uno dei capi della rivolta araba di inizio Novecento e stratega della guerriglia. T.E.L. è l’acronimo di Thomas Edward Lawrence. T.E.L. anche è un dispositivo per comunicazioni utopiche. Due attori, collocati in due luoghi diversi (uno al Molo San Vincenzo di Napoli e uno al Teatro Astra di Torino), lontani nello spazio, forse anche nel tempo, ma in collegamento continuo tra loro via internet, danno vita a un dialogo a distanza. Due pubblici differenti sono testimoni simultanei del loro possibile- impossibile confronto. Un interessante “esperimento” teatrale presentato durante il Teatro Festival Italia di Napoli ( prima assoluta Molo San Vincenzo 30 giugno e 1, 2 e 3 luglio). Ho incontrato Chiara Lagani per approfondire i temi dello spettacolo.

Il vostro ultimo lavoro T.E.L. apre una riflessione sullo spazio. Luoghi uniti (Napoli – Torino nella versione che ho visto al Molo S.Vincenzo per TFI) nel loro vuoto di senso, una sorta di flatlandia. Da dove nasce quest’idea di azzeramento dell’esperienza spaziale?

Chiara Lagani: è curiosa questa idea di azzeramento… è vero che il deserto di T.E.L. rimanda anche a questo. Ma il deserto è una metafora che solo in apparenza allude a una tabula rasa. C’è un ribaltamento continuo dell’idea di pieno e di vuoto, infatti, nella figura del deserto, o se preferisci uno slittamento continuo, che lo trasforma nel terreno di coltura ideale della visione, dei miraggi. Il deserto non è un vuoto, al contrario è popolatissimo di presenze, e non è privo di architettura e la sua architettura è ben disegnata, solo che intrattiene un rapporto molto forte con l’invisibile. Il teatro, un palco che attende, nella nostra metafora è come il deserto. E in questa metafora il fatto più potente è che il palco diviene luogo di uno scambio di reciproci miraggi, tra chi vede e chi è visto. T.E.L. si colloca in uno spazio misterioso, fatto di una intersezione tra due spazi reali che dà vita a un terzo luogo immateriale, che ne deriva, e che potremmo vedere come una strana, misteriosa possibilità. In questo spazio si creano le relazioni tra le immagini della storia. Non parlerei di azzeramento, dunque, ma di una superpresenza. Il “vuoto” di partenza infatti è anche un pieno molto caratterizzato e il miraggio che nasce in questo luogo, nonostante la sua natura fantasmatica, è sempre e perfettamente descrivibile. Del resto questa è la natura del miraggio: anche nell’opera di Lawrence, “I sette pilastri della saggezza”, ogni cosa sembra sempre nascere dalla bruma, paesaggi, storia, uomini, un misterioso liquido amniotico che contiene ogni cosa.

In un mondo senza profondità. Il vostro teatro apre continuamente lo sguardo alla possibilità di conoscere il mondo (non le singole cose, ma la “totalità”). Noi spettatori non possiamo cogliere questa possibilità se non abbandonando il suolo del mondo, trascendendolo.

La profondità nel teatro, la terza dimensione, è semplicemente la vita. Una traiettoria, forse, tra chi guarda e chi agisce. Prima, mentre mi parlavi dello spettacolo, hai citato una parola, “sopravvivenza”, che è una parola tecnica, una parola chiave nel nostro discorso sull’immaginario. Non so cosa significhi trascendere questo mondo, perché è proprio e solo in questo mondo che noi abitiamo continuamente luoghi fantasmatici, pieni di epifanie. Oz, Lawrence, Alice sono proprio epifanie, e le epifanie, col loro potere fantasmatico, ci mettono di fronte continuamente alla questione della sopravvivenza delle immagini, degli archetipi inscritti nel nostro immaginario. Riattualizzare le immagini che ritornano è forse il compito, l’attività dell’artista. A volte il caso, la vita stessa, ti propone la questione della riattualizzazione di un tema, di un’immagine, con una forza quasi brutale, senza che tu l’avessi direttamente convocata. Mi spiego meglio. Il primo germe di T.E.L nasce, forse, nel 2000, durante un viaggio tra Siria e Giordania, molto prima che scoppiassero le rivolte recenti in Africa e nei paesi arabi. Noi avevamo pianificato questa produzione ben prima che tutto ciò succedesse. E quando la Storia più attuale ha richiamato all’attenzione pubblica questi temi, per noi è stato ancora più difficile andare a toccarli, andare a trattare una questione già così delicata senza che eventi attuali la riaccendessero. A volte sembra una specie di profanazione toccare cose così vive, che hanno a che fare con la vita umana più prossima, col dolore e i movimenti in atto della storia, perché allora è davvero evidente che le figure del passato hanno questo grande potere di illuminare questioni attuali, riattivando temi che non hanno tempo. E sta a chi le maneggia prendersi la responsabilità di questa riattivazione, senza strumentalizzare i fatti della Storia. L’arte non interpreta i fatti, credo, l’arte procede per lampi, e a tratti, illumina grandi movimenti dell’umano. Georges Didi Huberman, nello scavare a fondo nell’opera di Aby Warburg, assegna questo ruolo all’arte, e alla storia dell’arte: reggere e dar conto di questo abisso che si crea nel rapporto tra vuoto e pieno, tra le continue collisioni tra passato e presente, nelle “ritornanze” del tempo. E’ questa la sfida che si accetta sempre in rapporto all’arte, anche come spettatori.

Se dovessi estrarre le figure fondamentali dalla parabola di Lawrence parlerei dell’idea di utopia e di un’altra idea, complementare e in certo senso interna a questa: quella del fallimento. Tutto sembra generarsi in questa storia da questo enorme conflitto, la fede sempre nuova in un ideale che si rivela quotidianamente impossibile.

Se il teatro si distacca rispetto al mondo, il dramma polverizza l’azione e riduce in poltiglia la sua collisione producendo fantasmi, sopravvivenze letterarie e visive. Il vostro teatro è un fantasma che gioca i suoi brutti scherzi alle nostre spalle? Lawrence D’Arabia in questo caso che tipo di fantasma è?

In teatro il rapporto con le figure mitiche o storiche (come in questo caso) di riferimento, il rapporto con il personaggio, in altre parole, è sempre un fatto di essenza, di incarnazione. L’incarnazione è una questione misteriosa e anche drammatica. E non parlo di identificazione, si tratta di un fenomeno più ampio. Non tutto può essere ricondotto sempre ad un piano narrativo, anche se ogni spettacolo racconta qualcosa. In T.E.L. ad esempio non si può parlare di identificazione nella figura di Lawrence da parte degli attori, ma di incarnazione sì. Nelle due scene, lontane nello spazio, un uomo e una donna, vestiti in tenuta mimetica da cerimonia, vengono attraversati dalla storia di Lawrence, anche se nulla hanno a che fare, in apparenza, con l’icona famosa di questo personaggio, che scrisse la storia di una rivolta nel deserto. Nella scena, una stanza vuota sovrastata da un altoparlante da cui esce la voce del secondo attore, quello la cui assenza-lontananza è evocata per tutto lo spettacolo dal primo dei due, c’è solo un tavolo, e quel tavolo è una superficie piatta da cui si genera la storia, perché toccando quel tavolo, che è uno strumento musicale vero e proprio ideato da Tempo Reale per questo spettacolo con una serie di sensori magnetici e capacitivi, l’attore crea uno spazio, una memoria, un racconto. E così nasce il vento del deserto, gli spari della rivolta, l’esultanza della tribù. Il tavolo è come un deserto, la matrice di tutte le sonorità che ci aiutano a precipitare in quel mondo. Lo spettatore così è tenuto a far fronte al suo deserto, come se si trovasse davanti al suo personale miraggio, deve cioè permettere alla storia, credendole, di nascere.

Il teatro è esteriormente senza difesa contro il mondo. Una condizione che sembra non appartenere al vostro modo di guardare alle “cose” del teatro? Che strano spettacolo T.E.L. Come può esserci un conflitto, dramma senza contatto?

In realtà, il miraggio ti espone a un contatto, sempre. L’epifania dell’immagine non può prescindere dall’idea di contagio. Credere profondamente a quello che si vede vuol dire toccarlo.

Simone Weil afferma che è la necessità a renderci sicuri del contatto reale con il mondo; la necessità è “la dura superficie delle cose” contro la quale urtiamo violentemente quando ci accorgiamo della realtà. Spesso seguendo le vostre opere mi sfugge il senso dell’altro, la direzione dialettica del vostro messaggio. Quale urgenza o emergenza muove il vostro teatro?

Io credo che l’arte, in quanto tale, proceda sempre da una necessità e l’arte, per questo, è sempre impegnata, contrae un impegno fortissimo col mondo, con quella che definisci realtà. I nostri lavori si occupano ossessivamente del rapporto con l’altro, con la responsabilità, l’attrito creativo dell’altro sull’opera. Nel progetto Ada il protagonista della storia era addirittura lo spettatore: Van in tutti gli spettacoli rappresentava lo sguardo di chi è fuori e che viene chiamato dall’opera a una sorta di complicità nella creazione, nel conseguimento di un senso. Forse non capisco bene a cosa ti riferisci esattamente con “direzione dialettica”, ma il rapporto con l’altro è il tema chiave di quasi tutte le nostre ultime opere, anche nel progetto Oz, Dorothy, la protagonista è avatar dello spettatore: suo è il viaggio, suo l’impatto con l’attraversamento di un mondo misterioso, suo quel percorso fatto di mattoni gialli in cui ogni passo è motivato dal grande sentimento della nostalgia, sentimento primario nel rapporto con l’altro e col mondo.

Bellezza e dolore si sovrappongono e si confondono spesso nel vostro lavoro?

Credo che questo avvenga sempre nell’arte e nelle cose umane in genere.

Italo Calvino nel suo “Il Viandante nella mappa” notava che la mappa, la carta geografica, nasce in vista di un viaggio e che pertanto trova nella linea più che nella superficie la sua forma coerente: “Il primo bisogno di fissare sulla carta i luoghi è legato al viaggio… Si tratta dunque di un’immagine lineare…”. Piatto, lineare è il tavolo/mondo interattivo protagonista di T.E.L. Una sorta di macchina psicogeografica da cui si dipana un’umana cartografia fatta di traiettorie sonore ed evocazioni spaziali?

La questione spaziale è una delle prime questioni che ci poniamo in un lavoro, una delle coordinate che regola il patto finzionale che ogni opera istituisce con il pubblico. Ogni spettacolo ha il suo contratto, come accade nel gioco. L’idea, la scelta di uno spazio non può essere in questo casuale, perché le prime domande che un bambino si pone in un gioco sono: io chi sono, e tu chi sei e dove siamo? Precise scelte drammaturgiche ci portano sempre a disegnare un dispositivo spaziale. In West, per esempio, lo spazio cita espressamente una performance di Marina Abramovich, The artist will be present. La domanda che si offre allo spettatore riguarda il tema della presenza come antidoto, come possibilità di una qualità, come questione etica primaria. Ed è dallo spazio, uno spazio vuoto, con un tavolo a cui siede l’attrice, in attesa di qualcuno che, forse, si sieda di fronte a lei a sostenere una qualità, che si genera il primo livello di quel contratto. Spesso è dal contratto spaziale che deriva la questione principe nei nostri lavori. C’è un altro spettacolo doppio, “Storia infelice di due amanti/Romeo and Juliet”, che in questo riassumere dello spazio, assorbire in sé la questione principe di un lavoro è, direi, esemplare. In quel lavoro gli spettatori assistevano allo stesso spettacolo, ignari, divisi in due gruppi e condotti per metà di fronte a un palco con microfoni dove si svolgeva il radiodramma live che aveva per oggetto la storia di Romeo e Giulietta, e per la metà restante nel retropalco, spettatori del backstage. I due spazi erano separati da un muro, che alludeva al famoso muro/personaggio del Sogno shakespeariano. Quando alla fine crollava il muro i due pubblici si trovavano di fronte e comprendevano che quello spettacolo, che per tema aveva proprio la storia di un muro, di un ostacolo era dal principio basato sulla compresenza, sulla separazione. E comprendevano che abbandonarsi al dispositivo scenico e alla sua regola, che implicava poi lo scambio tra i due pubblici per una seconda replica dello stesso spettacolo, diventava una questione di primaria importanza per comprendere le ragioni di quel lavoro.

In T.E.L. lo spazio è diviso in due zone, quella del tavolo-deserto- matrice, e subito davanti una piazza retorica, il luogo di un training, della corvé militare dell’attore, circondato da un pubblico disposto a C, immagine di un’assemblea. Quest’immagine fornita dallo spazio è fondamentale, è un’immagine interna al lavoro, non è una semplice disposizione fisica del pubblico in quel luogo.

“La necessità di comprendere in un’immagine la dimensione del tempo insieme a quella dello spazio è alle origini della cartografia” scriveva sempre Calvino. Questa considerazione indica come nella natura stessa dell’operazione cartografica si annidino un’anima politica e una vocazione scientifica. E’ stato così anche per voi nello sviluppo di T.E.L.?

Condividere un miraggio è un fatto collettivo e dunque eminentemente politico. Ma è anche un fatto percettivo profondo che mobilità una serie di competenze specifiche. Più che di vocazione scientifica forse parlerei di grande amore per la conoscenza, una conoscenza che ha a che fare con la passione per tanti aspetti dell’umano.

Come svilupperete questo progetto?

Il progetto su Lawrence d’Arabia non si esaurisce qui, è prevista una nuova tappa nel 2012-13. Si tratterà di un lavoro con una squadra di attori, dotati di competenze macchinistiche, che si muovono in un teatro, nel labirinto dei suoi meccanismi. Questo luogo sarà rivisitato e trasfigurato alla luce della storia che Thomas Edward Lawrence racconta in “Lo stampo”, diario feroce dell’arruolamento nella RAF da soldato semplice anonimo, alle prese con la disciplina volontaria e coatta dell’addestramento militare.

Come guardate all’arte contemporanea, sempre più costretta oggi a piegarsi alle leggi del mercato, a svendersi?

Non tutta l’arte si piega. E noi guardiamo con emozione alla resistenza di forme e contenuti che non vengono scalfiti nella loro forza dalla durezza dei tempi. La questione della sopravvivenza di un’arte che fa la fame, di spettacoli che non girano e che non vengono finanziati è un pensiero costante. Occorre maturare strategie di resistenza comune, alleanze. Ma un pensatore, un artista, un intellettuale che si ostini a lottare per la sua idea, senza mai rinunciare alle sue ragioni etiche primarie non si svenderà mai, anche a contatto con mondi lontani e molto diversi dal suo. Non si parla ancora abbastanza della resistenza del pensiero, della qualità di un pensiero forte che nonostante i duri colpi che gli vengono inferti non si avvilisce, ma continua a manifestare la sua necessità. Il teatro, la rappresentazione, l’arte è un’esigenza umana primaria, e nessun taglio di fondi potrà spegnere il desiderio che l’uomo ha dalle origini di rappresentarsi attraverso forme antiche e nuove.

       
       
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      Alessandro Fogli, Ravenna & Dintorni, 15 aprile 2011
       
     

Debuttano in giugno a Napoli – per poi andare in scena al Ravenna Festival e al festival di Santarcangelo – T.E.L. e 338171, Tel, primi due episodi del progetto che Fanny & Alexander svilupperà negli anni 2011 e 2012 sulle opere e la figura storica di Thomas Edward Lawrence, conosciuto ai più come Lawrence d’Arabia. È Luigi de Angelis, drammaturgo e regista dei Fanny insieme a Chiara Lagani, a raccontarci la genesi del nuovo lavoro.

Luigi, dopo Nabokov e Baum Fanny & Alexander affronta ora la figura e le opere di Lawrence. Perché questa scelta?
«Il progetto, che prevede tre declinazioni, nasce da una sorta di ossessione che io e Chiara coviamo dal 1999. Cominciai allora a leggere le opere di Thomas Edward Lawrence e nel 2000 la compagnia andò in Siria sulle sue orme per un mese, con l’idea, prima o poi, di affrontare questa figura. Lawrence è conosciuto soprattutto tramite il celeberrimo film, ma forse non tutti sanno che fu un grandissimo scrittore, anche se non ci ha lasciato molte opere. I suoi titoli più conosciuti sono I sette pilastri della saggezza e Lo stampo, che è una sorta di contrappeso all’altra. Più che le opere è però la vita di Lawrence che ci interessava, anche dal punto di vista drammaturgico. Giovane archeologo dalle incredibili doti sul piano dell’apprendimento linguistico – sapeva l’arabo, studiato a Oxford –, viene mandato diciannovenne a fare una tesi in Siria sui castelli dei crociati. Doveva fermarsi solo alcuni mesi ma alla fine rimase tre anni, girando un po’ ovunque in questa zona del Medioriente ed entrando in contatto con tutte le tribù arabe. In quel periodo la zona si chiamava tutta Arabia ed era sotto il dominio dei turchi; Lawrence prende informazioni per conto del governo inglese, che addirittura, dopo un suo rientro in patria, decide di mandarlo in Egitto per metterlo a guida della rivolta araba – tema involontariamente ora così attuale».
È in quel momento che Lawrence s’imbarca in un’impresa dai duplici risvolti.
«Sì. È evidente che era soprattutto il suo amore verso il popolo arabo a spingerne le gesta. Tutte le tribù erano divise, non esisteva l’idea di stato arabo, il dominio dei turchi era pesante per le stesse tribù, ma sono gli inglesi ad aver più bisogno di una rivolta araba per creare un fronte di contenimento contro l’espansione verso l’Egitto e il Canale di Suez. Lawrence si occupò di persuadere le tribù arabe in forza della sua conoscenza di ognuna di esse e le spinse alla rivolta contro i turchi. Ci riesce benissimo appunto perché si sente ormai parte di questo popolo. Non è però chiarissimo se questo amore nasca dal sentimento verso una persona realmente esistita quando era ragazzo. All’inizio de I sette pilastri della saggezza c’è una dedica a S.A., che si dice fosse un giovane arabo a cui viene dedicata l’impresa, poi morto, ma ciò non viene detto in nessuna parte del libro, anche perché in età vittoriana il tema dell’omosessualità era inaffrontabile. Wu Ming 4, nel saggio L’eroe imperfetto, pone molta attenzione alla questione della dedica e fa di Lawrence l’ultimo eroe di fine ‘800 inizio ‘900, un personaggio che si auto-crea una dimensione di eroismo quasi cavalleresco. E quindi S.A. potrebbe essere anche Sua Altezza, Son Altesse, perché allora era usanza scriverlo in francese. Tuttavia il discorso di affrontare un’impresa come gesto d’amore per una persona morta, un po’ come Achille con Patroclo, è molto forte. Wu Ming fa notare che anche Lawrence ha poi tradotto l’Odissea in inglese».
Ed ecco la questione per lui controversa.
«Esatto. Lui riesce a fare sì che le tribù arabe si uniscano nonostante le rivalità secolari ma inizia a capire che sta commettendo un tradimento, perché è comunque un servitore della corona inglese. C’erano accordi precedenti per la spartizione del territorio arabo in protettorati, e lui stesso è stato manipolato sfruttando il suo amore per i popoli arabi. In pratica l’indipendenza degli arabi non c’è, la sua è una falsa promessa. Quando torna in Inghilterra rifiuta la Victoria Cross, la massima onorificenza, direttamente dalla mani del re, perché sente di aver tradito».
Veniamo all’aspetto drammaturgico e alla nascita di T.E.L.
«La parabola di Lawrence è per noi estremamente interessante perché pone delle questioni cruciali all’artista e all’attore. Ci interessa il parallelismo rivolta araba-rivolta quotidiana, che è quello che l’atto creativo rappresenta. C’è innanzitutto l’orizzonte di resistenza quotidiano dato dalle difficoltà del proprio agire, almeno nel panorama italiano. Poi la questione della rivolta, cruciale per quello che riguarda il proprio atteggiamento per la creazione dell’opera. Da una parte c’è il discorso dell’azzeramento della propria identità a favore di un’altra. L’idea dell’assumere su di sé dei panni “stranieri”, che però si sposano, e del capire dove sono i limiti all’interno di questo processo di assunzione di un’altra identità. Poi c’è il discorso della libertà: dove sono i confini, dove inizia la libertà dell’attore, dell’artista in generale. Lawrence pone una questione molto interessante: l’idea di essere lui che manipola altre conoscenze, altre persone, ma di essere al contempo manipolato come pedina dal suo governo e dalla proiezione nel deserto delle proprie idee, una tensione utopica verso una libertà che sa benissimo essere irraggiungibile. Questo essere “parlati”, condotti, per noi è un tema fondamentale».
Vi siete anche avvalsi della consulenza dello scrittore algerino Tahar Lamri.
«Sì, molto importante. Lui da subito ha voluto mantenere un’innocenza nei confronti di Lawrence d’Arabia, che non conosceva. Abbiamo letto insieme molti brani delle sue opere. Per noi è stato molto utile la sua visione perché i giudizi sulle tribù arabe e la rivolta sono visti sempre da uno sguardo molto occidentale».
Scenicamente lo spettacolo come sarà strutturato?
«T.E.L. è l’acrostico di Thomas Edward Lawrence, però Tel è anche il suffisso di lontano, di televisione, telefono, perché si parte dall’idea che lo spettacolo sia sempre suddiviso in due parti e in due spazi lontani tra di loro, che potrebbero anche essere due città differenti, come infatti avverrà al Ravenna Festival, che è in parallelo a Santarcangelo. La questione chiave è che i due spazi (e i due attori, Marco Cavalcoli e Chiara Lagani) sono collegati tra loro tramite parabola satellitare e un apparato sviluppato dal Centro di produzione, ricerca e didattica musicale Tempo Reale, ed è come se non potessero fare a meno della dipendenza l’uno dall’altro; ogni spazio è sempre in connessione audio con l’altro, e l’attore è sempre in connessione con l’altro, si crea un movimento reciproco continuo, un’onda che va e viene tra i due spazi. Contestuale a T.E.L. è la realizzazione di 338171, Tel, sorta di radiodramma che avverrà in diretta ogni volta con una radio locale e che nasce dalla collaborazione con Rodolfo Sacchettini».

       
       
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      Franco Gàbici, Il Resto del Carlino - Ravenna, 19 dicembre 2010
       
     

Nel salotto di Chiara entra la luce di un bel mattino d'inverno, con la neve che disegna sui tetti allegri cristalli d'argento. Chiara Lagani, che si definisce scrittrice, attrice ma soprattutto drammaturga, con Luigi de Angelis ha dato vita nel 1992 al gruppo teatrale "Fanny & Alexander", oggi una delle più belle realtà del nostro teatro d'avanguardia. Chiara ha frequentato il Liceo classico "Dante Alighieri" e "Fanny & Alexander" è nato proprio fra i banchi di scuola: «Sì, è proprio così. Sapevo - racconta Chiara - che Luigi de Angelis organizzava a scuola laboratori teatrali e un bel giorno lo cercai e gli feci leggere un mio lavoro. Gli piacque e mi invitò a partecipare. Poi, come si dice, da cosa nasce cosa e alla fine è nato il nostro gruppo». Che agli inizi, però, non si chiamava "Fanny & Alexander": «No, ci chiamammo semplicemente "Chiara e Luigi", ma intanto eravamo alla ricerca di un nome».

Com'è nato "Fanny & Alexander"?
«Ci ispirò il film di Ingmar Bergmann. Bergmann definì il suo film "un arazzo, una immensa tappezzeria dove ognuno può scegliere cosa vuol vedere". E anche i nostri lavori teatrali hanno questa caratteristica».
"Fanny & Alexander" esordirono con "Hevel", un lavoro scritto da Chiara, nella ex chiesa del Ricreatorio messa a loro disposizione dal Teatro delle Albe: «Per noi Ermanna Montanari e Marco Martinelli sono state due persone veramente eccezionali. Ci hanno sempre incoraggiato e soprattutto non hanno mai fatto pesare la loro esperienza e la loro indiscussa autorità. E poi ci fecero debuttare».

Quando?
«Nel 1995 con "Ippolito". Luigi interpretava Ippolito mentre io ero l'Ancella di Fedra».

Emozionata?
«Quando Ermanna mi fece la proposta non ho dormito per due notti!».
In seguito "Fanny & Alexander" avrebbero partecipato a "Teatri 90", una rassegna organizzata da Antonio Calbi al Teatro Franco Parenti di Milano che dava spazio alle nuove realtà teatrali nate e cresciute lontano dai normali circuiti teatrali. Parteciparono con "Ponti in core".

I titoli delle vostre opere sono sempre ricercati. "Ponti in core" come nasce?
«Il titolo richiama un rebus di Leonardo da Vinci e starebbe a significare una esortazione a "resistere"».

Ma anche le scenografie sono ricercate.
«Sì. Per "Ponti in core" abbiamo allestito uno speciale teatrino anatomico che poteva ospitare solamente 24 spettatori».

Oggi il teatro risente purtroppo della crisi che sta investendo tutti i settori della cultura, ma per fortuna l'amarezza della congiuntura è bilanciata dalle soddisfazioni.
«Proprio pochi giorni fa - mi dice Chiara - a Francesca Mazza è stato attribuito il Premio Ubu come migliore attrice in "West", uno spettacolo prodotto da noi per il "Progetto Oz". Già Francesca aveva vinto un altro "Ubu" come attrice non protagonista del nostro "Aqua Marina". E questo per noi è motivo di grande soddisfazione perché un premio all'attrice è anche un premio al nostro progetto e un riconoscimento del nostro lavoro».

Oggi il gruppo "Fanny & Alexander" è composto da sei persone fisse più una folta schiera di collaboratori.
«Più che un gruppo - spiega Chiara - siamo una Bottega d'arte, nel senso rinascimentale del termine, quando nella bottega si radunavano persone di tutte le estrazioni che contribuivano alla crescita e allo scambio di idee. E anche noi abbiamo i nostri collaboratori, alcuni anche illustri».

Ne citi qualcuno.
«Collabora con noi, ad esempio, Stefano Bartezzaghi. Ma voglio ricordare anche Marco Belpoliti e Margherita Crepax...».

Ormai "Fanny & Alexander" è un gruppo ben consolidato e famoso in tutta Europa.
«Per tre anni ho condotto un laboratorio per attori a Stoccolma, ma abbiamo lavorato anche a Mosca, Zagabria, Bruxelles, Berlino. Siamo stati in Francia, in Portogallo, nel Galles...».

Insomma siete diventati famosi.
«Usando un gioco di parole - sorride Chiara - possiamo dire che è una fama che ci fa fare la... fame. Purtroppo stiamo lavorando sempre sull'orlo del collasso e oggi, per così dire, navighiamo a vista in attesa di tempi migliori che forse non verranno mai».

Quale sarà il prossimo progetto?
«Stiamo lavorando sulla figura di Lawrence d'Arabia. Debutteremo a Napoli nel prossimo giugno poi saremo anche al Ravenna Festival e a Sant'Arcangelo».
E tanto per non smentire la particolarità del loro teatro, per questo Lawrence d'Arabia saranno in scena solamente Chiara e Marco Cavalcoli. «Sì, ma saremo in scena in due luoghi diversi che saranno collegati fra di loro via internet».
Con Chiara si parla anche del più e del meno. Mi dice che non ha tempo libero («Il tempo libero è lavoro e lavorare è la cosa più bella del mondo»), mi ricorda i suoi otto anni di pianoforte («La musica mi ha dato molto, c'è sempre una architettura musicale nelle nostre opere») e la sua laurea in lettere antiche con 110 e lode («Il greco mi ha dato veramente una speciale "froma mentis", soprattutto la grammatica greca, che amo moltissimo»).

"Da piccola", cosa pensavi di fare "da grande"?
«Ero affascinata dall'ingegneria genetica. Quando a Ravenna venne Rita Levi Montalcini a ritirare il premio Guidarello ad honorem avrei voluto incontrarla per chiederle consigli».

Hai un sogno nel cassetto?
«Riuscire a fare tutto in maniera più dignitosa».
È il sogno di chi spende la vita per un teatro serio. Purtroppo, però, come ebbe a dire il drammaturgo spagnolo Enrique Jardiel Porcela, «il teatro è un mezzo efficacissimo per educare il pubblico, ma chi fa un teatro educativo si ritrova spesso senza un pubblico da poter educare».
Ma a "Fanny & Alexander" non interessano le folle: «Recitare davanti a poche persone - conclude Chiara - dà la stessa emozione della recita in una grande sala. E il nostro modo di fare teatro, come ha detto Goffredo Fofi, è e resterà sempre un messaggio "da pochi a pochi"».

       
       
Torna ad inizio pagina   Fanny & Alexander - Il nostro viaggio nel West di parole
      Alessandra Vindrola, La Repubblica - Torino, 6 giugno 2010
       
     

Sono fra gli ospiti "più antichi" del Festival delle colline. Ed è un controsenso, perché hanno poco più dell'età di molti esordienti. Ciononostante il teatro di Fanny & Alexander, "bottega d'arte" fondata a Ravenna da Luigi de Angelis e Chiara Lagani, vanta una storia lunga: quasi vent'anni sulle scene e oltre 50 fra spettacoli e video. Il segreto di questa strana combinazione fra l'età della compagnia e quella dei suoi ideatori è che il sodalizio è nato sui banchi di scuola: avevano sedici anni quando si sono conosciuti e non hanno più smesso di fare teatro insieme. Originale la loro storia, e ancora di più il loro teatro, che molti definiscono "barocco" e che il Festival delle Colline ha adottato, dapprima proponendo i loro spettacoli e poi anche coproducendo l'ultimo lavoro ispirato al Mago di Oz, otto spettacoli di cui l'ultimo, "West", sarà al festival domani alle 19 (alla Cavallerizza Reale) e poi in replica martedì e mercoledì alle 21. Ma cosa significa teatro "barocco"? «Noi ci sentiamo barocchi nell'anima - spiega Chiara Lagani - il nostro non è un gesto puramente estetico. È un' idea che va presa nel suo senso più profondo, ha a che vedere con la complicazione: è il gusto di dipanare le pieghe, di approfondire le cento domande che stanno dietro a ogni cosa. Anche per questo diamo vita a spettacoli "mastodontici". Quest'impostazione contrasta con la semplicità formata da alternative bipolari, da una parte i bianchi e dall'altra i neri... Questa è la logica che ci è imposta, anche in politica o nella moda: d'altra parte controllare questa semplicità che obbliga a schierarsi è più facile che non tenere a bada chi si fa molte domande». Un discorso che vale anche per "West"? «Per "West" soprattutto. Perché il cuore di "West" sono due concetti, quello legato al flusso - un'idea tipica dell' Occidente - e quello legata alla manipolazione». Ma in che modo tutto questo rimanda al Mago di Oz? «Il Mago di Oz fa parte del nostro lessico familiare. Penso che sia uno dei primi libri che ho letto. Rappresenta una sorta di ritorno alle origini. Questo ciclo di spettacoli è costruito attorno all'archetipo del viaggio. Idealmente, prima di concludere questo viaggio si toccano i quattro punti cardinali, di cui "West" rappresenta la punta estrema, ed è un viaggio anche attraverso i codici linguistici: perciò al centro dello spettacolo è la manipolazione effettuata dal linguaggio pubblicitario». Eppure "West" è uno spettacolo scarno, con una sola attrice, Francesca Mazza. «Dorothy è un avatar, quindi in ogni spettacolo è stata rappresentata da un'attrice diversa, compresa me stessa. Ma ogni volta lo spettacolo è costruito sulla pelle dell'attore che lo interpreta. In questo caso, l'attrice in scena riceve ordini, attraverso due microfoni, da due voci diverse, che le ordinano una di eseguire determinate azioni gestuali e l'altra azioni verbali. Le sue reazioni a questa persuasione occulta, che il pubblico arriva a capire a poco a poco, costruiscono una partitura imprevista, che cambia ogni volta. D'altra parte in questo abbiamo ancora tutti, spettatori compresi, un margine di libertà: il nostro modo di reagire, di riempire i vuoti fra un pieno e l' altro».

       
       
  La magia al potere: intervista a Chiara Lagani
      Graziano Graziani, Carta, nr. 27, 18-24 luglio 2008
       
     

L'11 luglio ha debuttato a Santarcangelo dei Teatri "Emerald City", nuova tappa sul progetto del Mago di Oz della compagnia Fanny & Alexander. Oltre ad essere uno tra i più popolari romanzi per ragazzi, il libro di Frank Baum è un vero e proprio "mito" dell'occidente moderno, e nello specifico nordamericano. La compagnia di Ravenna ha lavorato sulla storia di Dorothy, utilizzando "Il meraviglioso mondo di Oz" come una chiave di lettura multipla, da cui far scaturire una ramificazione di riflessioni. Una di queste concerne il potere, che nel mondo inventato da Baum si manifesta sia nel modo classico delle fiabe - la magia delle streghe buone e delle streghe cattive - e sia nel modo più moderno, e umanissimo, del Mago di Oz, che altri non è se non un uomo mortale che sa manipolare la gente grazie a una raffinata arte della persuasione. Ma il percorso proposto da Fanny & Alexander, come spesso avviene nei lavori della compagnia, si interroga anche e soprattutto a partire dal rapporto con il pubblico. Ne abbiamo parlato con Chiara Lagani.

il mito di Oz riprende un concetto di fondo che potremmo sintetizzare in questo modo: il potere è il grande illusionista.

E' uno dei punti nodali di questo mito, al quale sei costretto ad accostarti in modo poliedrico, perché la questione non è affatto semplice. La prima equazione è ovviamente quella tra l'arte e il potere. Tra la concezione dell'artista demiurgo e mistificatore, creatore di illusioni, e il potere che si esercita ad esempio sull'auditorio, o anche sulla stessa opera d'arte, che è emanazione dell'artista. Dall'altro lato, c'è la questione attualissima del rapporto arte-potere oggi: è possibile parlare di non compromissione con il potere da parte di qualcuno - l'artista - che è costretto a stare di continuo in una dimensione pubblica, e che quindi non può prescindere da determinate forme di compromesso, alto o basso che sia?
L'altra domanda che mi sto ponendo - attorno a cui ruota il lavoro di "Emerald City" - è il potere della fascinazione dell'opera, il suo "incantesimo" su chi guarda. In realtà è una questione che continuiamo a porci ossessivamente dal progetto "Ada" in poi, che ruota attorno al concetto di spettatore-opera, o spettatore-artista. Questo, nel mito di Oz, è un punto di fondo, basta pensare all'equazione mago-artista, che è la meta del viaggio intrapreso dai protagonisti. Lo Spaventapasseri, il Leone e l'Uomo di Latta - ovvero cervello, cuore e coraggio - rappresentano un po' l'umanità intera, e sono in viaggio verso questa città incantata. Dal mio punto di vista, essi rappresentano il pubblico che viene con la sua richiesta vitale, e attende una risposta da te.
Declinare questa domanda così corposa e allo stesso tempo evanescente è difficile. Evanescente come è lo stesso Oz, che nel libro è detto "l'imprendibile". Quando Dorothy e gli altri tre personaggi vengono ammessi a un colloquio con lui, devono entrare uno per volta, come si trattasse di un rapporto mistico, o di un confessionale. Entrando, ognuno vede una cosa diversa: una bella donna, una palla di fuoco, una bestia feroce. Come se il potere fosse un punto di rottura oltre il quale quella cosa non è più nemmeno rappresentabile.

Nel progetto inserite la figura di Hitler, che è fortemente connotata.

Pensa ad un'operazione come quella di Chaplin ne "Il grande dittatore". All'epoca si trattava di un'icona ancora vivente - mentre noi abbiamo il vantaggio della storicizzazione. In quel caso, pur trattandosi di un'icona disumana, l'artista è riuscito a collocarci dentro la propria carica problematica, trascendendo il problema. La potenza de "Il grande dittatore" è tutta nelle scene del discorso finale, che è eticamente agli antipodi rispetto al nazismo, eppure viene pronunciato proprio da quella figura. E' un contrasto fortissimo.
In "Him", opera d'arte di Maurizio Cattelan, ad esempio, la figura di Hitler non si riconosce subito, perché è di spalle, inginocchiato in fondo ad un'ampia stanza. Immediatamente, ispira pietà e compassione. Quando ti avvicini e riconosci Hitler il cortocircuito è grande, eppure la prima cosa che ti viene da fare è di mettergli una mano sulla spalla... Poi immediatamente ti chiedi cosa stai facendo. Questo accade anche nel mito di Oz. Quando i personaggi vanno dal mago per chiedere cuore, cervello e coraggio, ottengono qualcosa di molto diverso: il mago li intrappola con le sue parole, convincendoli che il cervello, come il cuore e il coraggio, basta dire di averli e di fatto li possiedi.
Nel momento in cui lui gli conferisce verbalmente i poteri, loro si convincono di averli. E' l'arte della persuasione. Lui è certamente mostruoso nel fare un'operazione simile, ma i tre personaggi, accettandola, sono altrettanto mostruosi. Perché alla base del potere c'è sempre un sodalizio, perché la gestione del potere avviene da due lati. Storicamente, c'è sempre chi esercita il potere e chi fa in modo che questo potere venga esercitato.
La domanda che poniamo allo spettatore è, in questo caso, fortissima. In "Emerald City" è citato il monologo finale del Mago di Oz, che trovo illuminante e agghiacciante. Lui dice sostanzialmente: mi trovavo qui e mi annoiavo, così ho deciso di inventare questo mondo; l'ho chiamato Emerald City perché attorno la campagna era verde, e perché il nome fosse più calzante ho messo sugli occhi della gente degli occhiali con le lenti verdi; del resto, il verde dà felicità, voi non volete essere felici?
E' un po' la storia tremenda di tutte le utopie.

Avete legato "Emerald City" alla metropoli, citando una città reale, Singapore. La metropoli è il luogo in cui l'equazione tra potere e illusione si sprigiona in tutta la sua forza.

Tutte le utopie sintetizzano le loro finalità in un'idea di città che è la città ideale. Così Emerald City è la città ideale del mondo di Oz. Non riuscirei mai ad identificarla con una città esistente, tranne forse con Singapore. Perché Singapore è l'unico luogo al mondo che ho visitato che quasi coincide con l'idea di nonluogo espressa da Marc Augé. Perché c'è una promessa di felicità che sfiora la follia. Lì tocchi gli estremi di condizioni opposte: c'è una ricchezza opulenta e una povertà assurda. E' una città fatta di luoghi "ricostruiti" da modelli che esistono altrove, tutto sembra finto o progettato a tavolino, persino l'odore.
Tutto questo è molto affascinante. Sembra di essere in una bolla, fuori dalla realtà, dal mondo e dalla storia. Ma, al di là di queste riflessioni, il discorso su Emerald City è più di carattere filosofico, quasi platonico, di città utopica che è allo stesso tempo il paradiso e l'inferno. Perché l'utopia è paradisiaca fin tanto che non si invera, quando si realizza diventa un orrore. Ma ci sono anche gli urti e le collisioni sociali. Noi poniamo sempre l'accento sulla collettività, che è la comunità che vive negli aggregati umani, quindi nelle città.

       
       
  Il doppio fragile di Fanny & Alexander
      Eva Costa, Atti & Sipari, nr. 2, aprile 2008
       
     

Ravenna, 1992. Questa la data di nascita di "Fanny & Alexander", gruppo teatrale fondato da Luigi de Angelis e Chiara Lagani.
Ci siamo incontrati nella loro città, dove recentemente è stato organizzato un laboratorio dal titolo "T. Alfavita (Testimonianza Attiva)", laboratorio per testimoni e attori, condotto da Chiara insieme a Lorenzo Donati di "Altre Velocità", compagnia non di attori ma di critici teatrali. Questo laboratorio di tre giorni fa parte di un progetto più ampio, "Alfavita", con cui il gruppo si ritaglia alcuni momenti di studio, per approfondire le proprie domande, lasciando ai partecipanti la stessa possibilità.
Una novità per "Fanny & Alexander" quella di mettere attore e spettatore in un confronto diretto. Sicuramente un esperimento da ripetere, come ha detto Chiara. Un territorio neutro (e abbiamo avuto modo di intuire quanti significati ha tale parola per i "F&A") di collisione per la coppia guardante-guardato, il "due" forse più importante del teatro.

Tenendo presente il vostro percorso artistico, la questione della dualità mi sembra centrale. C'è sempre uno scarto, una dicotomia, un altro di cui si "parla" nei vostri spettacoli. Persino il nome del gruppo è scandito in due tempi. In che senso rispetto al vostro teatro si può parlare di dualità? Che cos'è il doppio per "Fanny & Alexander"?

CHIARA LAGANI - Questa è una domanda che ci fanno spesso... Fin dalla scelta del nome infatti, come dici tu, la nostra intenzione è stata quella di evidenziare la questione duale, essendo il Due la matrice creativa per eccellenza. Eravamo ostili all'idea di trovare un nome che veicolasse un significato teorico. Volevamo un nome semplice, un nome molto concreto, come quello che si può dare a un bambino alla nascita. Il nostro è un nome doppio e famoso però, perché "rubato" ad un film di Bergman... La prima persona che commentò questa scelta fu Marco Belpoliti: "questo nome è cascante, retorico, leggero: sembra il nome di una coppia d'arte, d'avanspettacolo... Eppure ha la forza monolitica del Due, della coppia". In effetti in ogni nostro spettacolo l'idea del doppio è centrale. Nel progetto Ada, cronaca familiare il protagonista, Van, è l'alter-ego di uno spettatore interiorizzato dalla rappresentazione: siede ai margini della scena, è il "guardante" per eccellenza, solo attraverso di lui si può vedere quel che accade. Il Due in teatro contempla sempre - tornando alla questione della testimonianza attiva di cui ci stiamo occupando nel laboratorio di questi giorni - chi guarda e chi è guardato, lo spettatore e l'artista. Ma non è solo questo. In una recente intervista ho istintivamente coniato il termine di drammaturgia duale. Anche se sono io che firmo le drammaturgie dei nostri spettacoli, non me ne sento mai l'autrice assoluta: c'è sempre una cooperazione molto intensa con gli attori e gli altri collaboratori ma, soprattutto, non posso più separare l'idea di creazione da quell'uno indiviso e duale che per me è la sostanza del mio lavoro con Luigi de Angelis. "Drammaturgia" è tutto ciò che in uno spettacolo "racconta": la tessitura delle azioni, delle parole, delle luci... Considero testo ogni elemento semantico in uno spettacolo, quindi come potrei arrogarmi il diritto di questo testo intero? Chi mai potrà definirsi, mi chiedo, l'autore unico di un testo così? Sì, forse è proprio corretto parlare di dualità, o magari di dualità espansa, nel nostro caso specifico...

Si può parlare allora di dualità anche rispetto alla scrittura di un testo. Ma come nasce esattamente un vostro testo?

CL - Nello specifico ci sono varie modalità di scrittura di un testo, dipende ovviamente dal tipo di spettacolo. Ti posso fare tre esempi. Il progetto Ada è un adattamento da un romanzo colossale, l'ultimo romanzo di Vladimir Nabokov, da cui noi abbiamo tratto sei spettacoli: in questo percorso il testo romanzesco d'origine è stato masticato, ruminato, metabolizzato, triturato, digerito, risputato... Sicuramente potrei parlarti di una grande storia d'amore che si è consumata tra noi e Ada, ma anche di un nostro appassionato sodalizio con altri suoi innamorati, tra cui Margherita Crepax, la traduttrice del romanzo. Ogni singola parola, ogni singola immagine è stata concepita a distanza ravvicinatissima con quel testo e con gli altri testi di Nabokov: una forma di ossessione composita si è consumata fino a incarnarsi nelle opere. Per Heliogabalus mi sono trovata invece ad inventare un testo scritto in una lingua utopica, non esistente, che prima andava però fondata in maniera rigorosa, anche dal punto di vista grammaticale: tutto questo è avvenuto attraverso vari esperimenti linguistici effettuati sugli attori stessi, che ci hanno offerto il loro corpo e le loro intelligenze, autodisciplinandosi in estenuanti sedute di lavoro, in gara col vuoto di un senso da rifondare a ogni istante. Insieme abbiamo dato vita ad una lingua "tiptografica", fatta di battiti, e ispirata ad un racconto di Tommaso Landolfi. Per Dorothy. Sconcerto per Oz, infine, ho lavorato a partire da una figura retorica che definisco "coincidenza". L'idea drammaturgica di quello spettacolo è l'avvento di un ciclone, che determina il contratto scenico: è una relazione di promiscuità tra spettatori e artisti perché tutti condividono lo status di rifugiati. Quando avviene un ciclone, un ciclone vero, tutto salta in aria e infatti tutti i materiali di lavoro, testuali e non, sono stati fatti cortocircuitare in un modo a volte anche difficile da gestire e prevedere, perché a partire da una ferrea regola di base (la partitura) si creavano continui fenomeni di collisione tra i corpi (testuali, luminosi, musicali e umani). Quando parlo di quel lavoro dico sempre che mi sentivo in un laboratorio chimico: la difficoltà non era mai assistere al fenomeno alchemico che inevitabilmente si realizzava, spesso in maniera emozionante e stupefacente, ma saper sempre scegliere con cura e precisione certosina gli elementi che avrebbero scatenato quella reazione.

E' interessante scoprire, in questi giorni, come la problematica tra vita e forma per l'attore sia la stessa anche per lo spettatore, per quello spettatore con la "s" maiuscola, che è per voi il testimone attivo. Egli deve fare i conti con una doppia assenza. L'assenza dalla scena e l'assenza da sé, dal proprio corpo. A questo punto mi viene in mente questo stadio puramente duale, anti-identico, ospitale e pieno ad un tempo, che è il neutro, in cui lasciamo spazio e ci facciamo spazio. Può essere il neutro una forma di ironia? Quanto è importante l'ironia per l'arte?

CL - Beh, sì, è assolutamente importante, lo è anche nella vita oltre che nell'arte! L'ironia, forse, è proprio la chiave di volta dell'idea di doppio di cui stiamo parlando dal principio dell'intervista. E' un procedimento molto intimo e sottile che segnala il poter stare fuori e dentro le cose nello stesso istante. E' il tentativo feroce, disperato (e disperante) di mantenere intatta un'unità che si scinde continuamente. Il neutro, almeno quello etimologico, è anche questo. Faccio un esempio. Francesca Proia ci ha parlato di corpo sottile ieri, di corpo fantasma, che è un corpo plastico e invisibile su cui si concentra massimamente lo sguardo dello spettatore. E poi di un corpo materiale, quello esterno, quello che siamo abituati a vedere quando ci guardiamo allo specchio. Conciliare due immagini così, da un lato il corpo sottile che è reale, ma che si manifesta quasi in forma di intuizione sensibile, e dall'altro il corpo esterno, quello comunemente percepito dai sensi, conciliare due immagini e due stati così nel lavoro di un attore mi pare proprio un procedimento di tipo "ironico". Il lavoro di Francesca Proia, infatti, ha sempre un'intensità sorprendente e spiazzante; i suoi spettacoli sono pieni di questo tipo di ironia.

La vostra indagine, al momento, si sta orientando su questo strettissimo rapporto, che include anche il lavoro sul confine tra emblema ed emozione, riproduzione espressiva stereotipata e sentimento vitale, che è stato poi anche il tema del laboratorio Oz.Alfavita M. (MIMICRY) al Teatro Vascello di Roma. E' possibile per l'attore scegliere tra "apparire" ed "essere" o rimane anche per voi un paradosso come lo era per Diderot?

CL - Se mai il problema per l'attore è il fatto che "apparenza" ed "essenza" tendono a coincidere, per cui la diade non si declina tanto in "apparire e essere" ma piuttosto in "apparire è essere". Nel momento in cui l'apparenza cessa di essere un'essenza il lavoro dell'attore frana, è ridicolo, lo abbiamo anche visto in questi giorni. L'attore lavora a partire dalla fragilità, il suo sforzo è sempre andare a cercare un punto di rottura tra essenza e apparenza. Nel momento in cui riesci a collocarti davvero al centro della tua piccola fessurina franata, e magari a starci anche comodo, allora scopri un vero mondo. Il fatto è che poi subito dopo si ricade, si torna a star scomodi, la terra rifrana, si conoscono il pudore, le bruttezze, sorgono nuovi disagi, nuovi bisogni, si fanno i conti con la forma e l'artificio, e poi di nuovo con la mancanza di forma e di artificio... Quello dell'attore è un lavoro benedettamente infinito, o almeno potenzialmente infinito, come infinite sono le possibilità di una vita.

A questo si aggiunge poi il problema della ripetibilità di un'opera d'arte. Sempre per citare Diderot, l'attore è privo di sensibilità e imita senza sentire proprio per garantire la possibilità di ripetizione della performance. Marco Cavalcoli, che lavora con voi da anni ormai, a Roma, con lo spettacolo Him è andato in scena per un mese. Come la mettiamo con la ripetibilità? Aveva ragione Diderot?

CL - Quella di Marco è la prima esperienza, per Fanny & Alexander, di un così lungo periodo di repliche per un nostro lavoro. Immagino che debba esser divertente e spossante, come un gioco condotto all'estremo (e allo stremo): si tratta sicuramente di una fatica psichica oltre che fisica, perché il compito dell'attore, quando si trova a ripetere, è generare domande e rigenerarsi continuamente attraverso le nuove domande, e insomma fare in modo che lo spettacolo non cessi di essere un vero grande punto interrogativo. "A pointless question", come recitava la soluzione di un famoso rebus anglosassone. Credo però che ad un certo punto possa anche arrivare il momento in cui un'opera, con tutte le sue domande, si esaurisce. Comunque il problema della tenuta è molto grande nel lavoro dell'attore, anche quando lo sforzo di ripetizione non è così protratto nel tempo. Ho sentito a volte gli attori parlare di alcune "strategie" che usavano per rinnovarsi sulla scena: c'è chi lavora sull'invenzione di incidenti, su difficoltà inedite e improvvise da predisporsi appositamente ad ogni nuova replica... Questi sono solo strumenti, o espedienti, per ricreare semplicemente quello che è caratteristico della vita, quello che ci permette di amarla in modo sempre più innamorato: l'imprevisto, l'inaspettato, ciò che avviene ogni giorno senza annunciarsi, e che una forma fissa o data sembra in apparenza escludere (ma così non è, lo farebbe se davvero l'attore fosse "privo di sensibilità"). La forma in arte non è mai separabile dalla sostanza viva che racchiude, non è mai una forma morta e conclusa. La questione è sempre la stessa allora: il rapporto tra la forma e la vita.

Alla luce di queste riflessioni e del lavoro su Oz, sulla dualità che caratterizza l'attore e non solo l'attore, l'artista come diceva il filosofo francese deve assolvere alla funzione di saggio nei confronti della comunità sociale?

CL - Il discorso sulla saggezza è molto complicato, se così posto, per me. Kurt Vonnegut ha inventato una metafora molto più delicata, terribile e anche lieve sull'artista: l'artista è come il canarino che i minatori mandano avanti nelle miniere. Se ci sono delle esalazioni tossiche, il canarino morirà per primo e loro si salveranno. L'artista per Vonnegut è chi va in avanscoperta a rischio della sua stessa vita. Il canarino precede i minatori non perché sia più dotato, ma perché è più sensibile alla tossicità, al veleno. L'artista poi, fin dall'antichità, è colui che produce in sé l'alchimia, che trasforma il veleno in pharmakon. Vive e muore, ma poi ancora muore e vive, e lo fa prima degli altri, o, se vuoi, davanti agli altri. Non so se questo è un procedimento psicomagico o una forma di saggezza; se fosse una forma di saggezza, allora risponderei che, sì, l'artista è un essere molto molto saggio.

In tutta questa conversazione sull'attore ci dimentichiamo di qualcuno... ovvero del personaggio. Dove sta il personaggio rispetto all'attore? Dentro? Fuori? Sopra? Sotto? Come le streghe di Dorothy?

CL - Beh, il discorso sul personaggio sarebbe molto lungo e complesso. Quello che posso dire qui, in breve, perché non l'abbiamo ancora fatto, è che l'attore è anche colui che ospita in sé tante vite, che arricchisce approfondisce e sorpassa la sua identità attraverso tante altre identità Se dovessi disegnare la carriera di un attore, disegnerei una linea sottile, che a poco a poco si stratifica, si ispessisce, diverte da sé, direi, o meglio si concretizza in un sé che è un fascio di linee sovrapposte e intrecciate. Se si potesse sezionare verticalmente l'anima di un attore vecchissimo vedremmo forse un'iride gigantesca, mostruosamente dettagliata.

"Al termine della sua famosa storia Dorothy giunge a Oz e, in procinto di essere esaudita, scopre che il suo mago è un falso mago e un vero artista: un ventriloquo, esperto d'aria e mongolfiere, di illusioni e altre cose inesistenti. Le alterne sembianze del mago - la grande testa, la bella dama, la bestia feroce - si rivelano fittizie e mendaci. Ma erano davvero un inganno?". Il teatro si nutre dell'inganno, della menzogna. Lo stato di sincerità, come diceva Jouvet, è uno stato improprio all'attore, come del resto all'uomo sociale, sebbene sia un ideale verso cui tutto il mondo tende. Anche Platone nella sua Repubblica parla della mimesis come un'arte ingannatrice e doppia, che si rivolge alla parte irrazionale dell'uomo, manipolandola. Solo il filosofo può fare buon uso della menzogna. Il poeta imitatore alla fine viene cacciato dalla Città ideale. Qual'è il vostro rapporto con la menzogna? Cosa rispondereste a Platone?

CL - Non so proprio cosa risponderei a Platone, probabilmente ammutolirei e basta se fosse qui davanti! Credo che il rapporto con la menzogna per un artista sia segnato dalla tensione del suo rapporto con l'invisibile, che, come dicevo in altre forme prima, non è mai un rapporto con quello che non è lì, ma col suo fantasma, che è sempre una superpresenza. L'attore, l'artista, ha una stretta frequentazione col mondo delle immagini fantasmatiche: queste immagini hanno un peso specifico talora schiacciante. Nell'arte dell'attore il rapporto con l'invisibile è forse il nodo fondamentale. Questo rapporto prevede una immedesimazione o interiorizzazione del contratto finzionale e, contemporaneamente, la consapevolezza feroce e continua che quello è solo un contratto: in questo salto mortale tra due mondi si gioca la presenza scenica. Non è mai un fatto di intelligenza però, credo, o non tanto, ma di incarnazione. Credo che anche allo spettatore, a diversi livelli, questa questione si ponga. Forse, il rapporto con l'invisibile sarebbe un buon oggetto di studio per un altro laboratorio critico per attori e testimoni.

       
       
  Da “Dorothy” a “Him” le nuove direzioni di Fanny & Alexander
      Rodolfo Sacchettini, VeneziaMusica nr. 18, settembre/ottobre 2007
       
     

Dorothy. Sconcerto per Oz di Fanny & Alexander ha debuttato a Skopje nel febbraio 2007. Arriva in Italia il 10 ottobre al Teatro Comunale di Ferrara. Si tratta di uno spettacolo di teatro musicale o scène lirique che comprende un’orchestra da camera, una pianista, un’oboista, una violinista, tre cantanti, tre attrici e un attore.
Da Dorothy. Sconcerto per Oz è nata un’altra performance, che porterete qui a Venezia al teatro Fondamenta Nuove il 23 e 24 ottobre, in cui un attore nei panni di un Hitler in castigo (citazione della famosa scultura di Cattelan), davanti a uno schermo cinematografico, doppia in lingua inglese, con un effetto comico involontario, tutte le parti di un film proiettato alle sue spalle.
Dopo l’adolescente Heliogabalus vi siete immersi nel mondo di Oz e avete scelto la piccola Dorothy come figura “archetipica” della modernità. Vorrei entrare nel vostro lavoro dalla porta principale, cioè da questa sorta di macro-personaggio interpretato e vissuto dalle diverse attrici e forse dallo stesso pubblico…

CHIARA LAGANI - Dorothy è una parola magica, un capiente spazio nominale al centro del quale sono “convocati” una gran quantità di oggetti e persone: è il titolo di un’opera in primo luogo. È una bambina, la protagonista della storia nel libro di Lyman Frank Baum, così come nel film di Victor Fleming. Dorothy è anche il nome di un ciclone, secondo la tremenda usanza di chiamare con nomi di donna le sciagure naturali o i funghi atomici. Ed è proprio questo il primo livello che si instaura con il pubblico, perché gli spettatori sono invitati a prendere posto al centro dell’occhio del ciclone - visivo e sonoro - su materassi della protezione civile approntati per dare riparo ai rifugiati, come è accaduto nello stadio di Houston durante l’uragano Katrina, negli States. Il luogo è apparentemente asettico, è il centro di un nudo teatro o di un palazzetto dello sport. Gli interventi sullo spazio riguardano in gran parte la disposizione e la natura delle luci, ispirate alle “scenografie luminose” di Dan Flavin. Sulle pareti vi sono circa 600 neon fluorescenti che vanno a comporre un organo a canne di luce o “aurora boreale”, richiamando, tramite i colori primari, la sensazione del viaggio percettivo e variegato nel mondo di Oz.

E infatti sembra di stare in una sorta di zattera comune, di navigare tra sopravvissuti nella speranza di un approdo di salvezza. In questo senso mi pare ci sia una forte componente “utopica”…

CL - Più che essere già dei sopravvissuti, direi che agli spettatori è data qui la possibilità di sopravvivere. Forse ci si salverà, ma il disastro e la salvezza sono “a venire”. È vero che alla base di tutto c’è un’istanza utopica, ma la vera utopia è proprio la comunità; è un’utopia lo stesso gesto elementare e magari ingenuo di radunare delle persone in un luogo come se fossero dei rifugiati. Quel che non è scontato però è cogliere che la loro eventuale salvezza dipende unicamente dal modo in cui saranno capaci di abitare quel luogo. Infatti si sopravvive non solo al disastro del fuori, ma anche al disastro di quel luogo. Il ciclone non è un semplice accadimento esterno. Mi chiedo: se davvero queste persone fossero dei rifugiati cosa succederebbe? Resisterebbero assieme? Si sbranerebbero tra loro? Scapperebbero?

A questo punto mi chiedo come ha preso “forma” la scena. Da Heliogabalus a Dorothy, dallo spazio” privato” di una stanza-vagina alla condivisione “pubblica” della platea…

LUIGI DE ANGELIS - Ci eravamo posti un assioma fondamentale. Quest'opera doveva mantenere l'accento sulla figura di Dorothy: ogni spettatore poteva assumere lo statuto della bambina Dorothy nella storia ma solo a partire dal disastro, dal ciclone Dorothy. Così abbiamo posto lo spettatore dentro l'occhio del ciclone. La com-penetrazione ermafroditica è qui una vera orgia di sguardi degna del miglior degli Heliogabalus. Si tratta di uno spazio scenico plurimo che va contro l'idea della scenografia prospettica: tutti vedono e sentono da angolazioni differenti e devono scegliere quale linea seguire. Non c’è unità, è un cubismo fatto di tante monadi, di plurimi sguardi. Gli spettatori sono sui lettini in mezzo agli artisti e ognuna delle nove artiste recita dal suo lettino, come da diversi piccoli palcoscenici distribuiti nello spazio. Ognuno è chiamato a essere Dorothy, il pubblico e le artiste, ma quella dello spettacolo è in principio una specie di comunità “involontaria”. L'adesione al modello Dorothy è dunque una responsabilità: tutti siamo Dorothy se scegliamo di viaggiare, di spostarci all'interno del gorgo di un'opera.

In questo senso mi sembra che l’aspetto musicale sia fondamentale, perché la percezione dello spettacolo è soprattutto sonora. Fin dal titolo il lavoro si presenta come una sorta di nuova “opera”. Da cosa nasce l’idea dello “Sconcerto”?

LdA - Lo "Sconcerto" rispecchia l’idea dell’opera-ciclone. È una partitura multi-stratificata stabilita al millimetro con alcune variabili di improvvisazione a discrezione delle artiste. La scansione temporale è data dal doppiaggio del soundtrack del film Il mago di Oz da parte del “guardiano” del luogo, un personaggio che certo allude al mago di Oz e che abbiamo battezzato “Him”, citando Cattelan, come accennavi. L'attore che impersona Him, Marco Cavalcoli, deve prestare attenzione non solo al soundtrack, di cui da vero dittatore si è arrogato tutte le parti, ma anche al caos sotto di lui, per intervenire e modificarlo. Him è sempre in maniacale relazione con tutti i fili dell’opera che cerca di ricondurre verso un’unità forse impossibile di cui lui stesso è l'emblema.
Le nove artiste invece, a gruppi di tre, sono le Streghe del racconto. Il ruolo della Strega è tripartito: una cantante, una strumentista e un’attrice dan vita allo stesso personaggio (Strega del Sud, Ovest e Nord) a partire dalla propria funzione. Ogni Strega è la sintesi di un personaggio teatrale, operistico e di un leitmotiv strumentale accorpati e messi in relazione per osmosi di carattere. I materiali musicali e letterari vengono da: Landolfi, Puccini, Delibes, Rousseau-Horace Coignet, Skriabin. Ogni artista “ripete” la sua parte attendendo il ciclone, e a partire da questi abbozzi di prove teatrali e musicali a poco a poco si segnalano le parentele e si sintetizzano i personaggi delle Streghe. Il modello di partenza sono le Europeras di John Cage, in particolare la nr. 3 e la nr. 4. Sono opere in cui gli artisti possono decidere simultaneamente, durante un tempo precisissimo, di cantare l’aria o interpretare la frase musicale che vogliono, all'interno di un repertorio fissato dal compositore che fornisce però solo indicazioni retoriche. L’ascolto di queste opere è stato il vero ciclone che ha fatto germinare Dorothy. Sconcerto per Oz.

Un’ultima cosa, così come Dorothy, durante lo spettacolo siamo tutti pieni di “nostalgia”, ma non sappiamo bene di cosa e non sappiamo esattamente perché…

CL - La nostalgia per l’orribile Kansas è davvero il più violento mistero! Questa nostalgia è una specie di peccato originale. Partire con nostalgia da un mondo sostanzialmente amato indica la volontà di far luce e strada a una verità più alta, nascosta o criptica, qualcosa che sta sotto e aldilà del mondo originario, qualcosa che era già presente.
Nel film lo “scandalo” della nostalgia e del viaggio è stato esorcizzato dall’escamotage drammaturgico del sogno: nulla è davvero avvenuto, tutto è solo stato sognato. Ma nell’opera di Baum Dorothy compie il suo viaggio perché ha bisogno di una conferma. Qualcuno ha detto che Dorothy non si sposta realmente, certo è che si sottopone a svariate metamorfosi. L’imperativo del viaggio, anche se fosse solo una metafora, è sempre accettare di essere modificati da chi si troverà per strada per esser pronti davvero all’incontro conclusivo, che è sempre quello con se stessi, con l’identico modificato sé.

       
       
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      Antonio Caronia, DROME magazine, numero 9, 2007
       
     

Il gruppo teatrale Fanny & Alexander  è nato a Ravenna intorno al 1992 a opera di Luigi de Angelis e Chiara Lagani, che ancora oggi lo animano. Fra il 1993 e il 1999, spettacoli come Cantico dei cantici, Con mano devota, Ponti in core, Sinfonia majakovskiana (con Teatrino Clandestino), Sulla turchinità della fata, hanno segnato la loro maturazione, fino a produzioni impegnative come Requiem (2001) e le varie tappe del progetto Ada, Cronaca familiare (2002-2004), ispirato al romanzo di Nabokov. La loro ultima produzione è Heliogabalus,sulla figura dell’adolescente imperatore romano. La cifra più incisiva di Fanny & Alexander è quella di un programmatico rovesciamento dei codici, di una continua e radicale sfida alla percezione dello spettatore, di una raffinata cultura visiva. Ma tutto questo è al servizio di un’attenzione e di una ricerca rigorosa sul linguaggio, che attraversa tutta la loro opera e culmina (a tutt’oggi) con le “lingue impossibili” inserite in Heliogabalus,esplicito omaggio all’Oulipo e a Tommaso Landolfi. Il tema del doppio ritorna in molti altri dei loro lavori, ed è su questo che li abbiamo intervistati. Ci ha risposto Chiara Lagani.

Con “Heliogabalus” mi sembra la prima volta che vi dedicate ad una vera e propria “analisi del personaggio”. Come avete affrontato il tema dell’identità nel caso di una figura così esplicitamente “doppia” (a livello sessuale, ma non solo) come la sua?

Ci è stato detto da più parti che Heliogabalus sembra “un teorema sull’abolizione della comunità”, e questo è sicuramente vero, ma è vero anche che è un teorema sul desiderio straziato di ricomposizione della comunità abolita, a partire dal quesito fondamentale, quello sull’identità, appunto. Eliogabalo è “due in uno”, in lui la domanda sulla relazione, la stessa domanda che era alla base del progetto Ada, si radicalizza, si interiorizza, incarna un’istanza primaria, elementare. Se negli spettacoli di Ada questa domanda era alla base della stessa possibilità rappresentativa di quella storia, in Eliogabalo la stessa questione è un corpo e la sua principale implicazione, quella ermafroditica. Lo scandalo di Eliogabalo è che il suo corpo, il suo primario statuto d’esistenza, pone già irrimediabilmente la domanda fondamentale sulla relazione con l’altro da sé in sé. Per questo la prima domanda che il nostro Eliogabalo in scena rivolge a se stesso è quella identitaria: “Chi sei?”. È solo attraverso una lenta e accanita elaborazione della risposta (non univoca) che verrà data a questa domanda che Eliogabalo arriva infine a rappresentare se stesso come ulteriore e vivente figura della comunità alla comunità (e non è questa alla fine la vera morte di Eliogabalo?). Anzi, potrei dire che la drammaturgia dello spettacolo costituisce un tentativo forse impossibile di dar risposta proprio alla domanda sull’identità. Questo quesito ne genera a poco a poco altri, di tipo linguistico (“Come posso parlare?”, “Qualcuno capisce quello che sto dicendo?”), di tipo formale, di tipo politico. Il problema dell’identità di Eliogabalo è talmente complesso da costituire la vera ipotesi drammaturgica dello spettacolo, che vede tre attori-danzatori incarnare alternativamente la figura imprendibile e forse impossibile dell’Imperatore. Questo nodo, quello della relazione interrotta, ha una matrice profondamente sessuale, come lo aveva in altra misura in Ada e come lo ha nel testo di Landolfi sull’incesto su cui stiamo lavorando ora.

Nei vostri spettacoli il lavoro sul linguaggio ha sempre un posto rilevante, con l’uso di materiali non teatrali che voi ricontestualizzate nella drammaturgia, o col ricorso a materiali enigmistici. Stefano Bartezzaghi, l’enigmista e studioso che ha collaborato con voi per “Ada, cronaca familiare”, sostiene che l’enigmistica è una “scienza del doppio”. È così anche per voi?

Infatti lo stesso tipo di discorso è rispecchiato (o è lo specchio) dei due problemi linguistici toccati in questi ultimi anni in maniera ossessiva dai nostri spettacoli: l’enigma e i linguaggi impossibili. Quando Bartezzaghi parla di enigmistica come “scienza del doppio” non si riferisce naturalmente solo al contesto tecnico-linguistico dei giochi, che prevedono sempre un secondo senso, una seconda lettura latente (che “doppia” il primo livello linguistico), ma anche alle implicazioni etiche, estetiche e filosofiche della questione del doppio nell’enigma: l’enigma doppia un senso, doppia chi chiede in chi risponde (e viceversa), doppia il quesito nella risposta e da tutto questo deriva una forma feroce che allude sempre ad una latenza, ad un vuoto forse incolmabile. Io dico sempre che il discorso sulle lingue impossibili (in Heliogabalus e nel progetto Oz) è solo un’estremizzazione del discorso sull’enigma già condotto in Ada: anche in questo caso si allude a un senso comune da trovare in seno ad un'intuizione o cooperazione almeno duale, il cui sfondo sostanziale e forse utopico ha al centro sempre lo stesso problema d'amore.

Mi pare che anche l'aspetto scenografico e archittettonico delle vostre messe in scena sia spesso giocato sulla duplicità. Ricordo un Romeo e Giulietta che rappresentaste a "Interzona", a Verona, nel 1999, in cui c'erano addirittura due diversi spettacoli, con due pubblici diversi, separati da un muro che alla fine crollava. Che relazione c'è nel vostro lavoro fra la "duplicità" linguistica e quella visiva?

La scenografia doppia di Storia infelice di due amanti - Romeo and Juliet è solo quella più emblematica (perché struttralmente concepita per una situazione "doppia") in questo senso. Ma anche in tutte le scene del progetto Ada c'è sempre un insistito ricorso a due spazi, due luoghi fisici o mentali (un esterno e un interno, un davanti e un dietro, un dentro e un fuori): così avviene nella stanzetta di Ardis I, che accoglie lo spettatore-Van catapultandolo in una storia (la sua) che sta al di là di quella stanza; e così in vari altri spettacoli di quel progetto. Credo che questo versante del tema del "doppio" trovi il suo centro in una figura geometrica fondamentale, quella della linea di separazione, di demarcazione che si trova nel due: sipario, muro, palpebre... Si tratta di una linea talora marcata, talora così sottile che tende alla scomparsa. Eppure questa linea esiste sempre e su essa si appunta un quesito fondamentale che è al centro di ogni idea di rappresentazione (e di arte), perché è proprio la linea, la separazione che presiede alla mescolanza e ad ogni principio di polarità, guai a dimenticarsene! Che alludesse a questa questione l'intuizione di Shakespeare nel Sogno di una notte di mezza estate, che ci è servita da ispirazione per la scenografia di Romeo and Juliet di Verona? Nel Sogno il muro non è una scenografia, ma è un personaggio vivo, che impedisce il ricongiungimento degli amanti infelici, quel muro bistrattato "nel modo più osceno e intrepido", che per gesto di rivolta finirà per ritirarsi dalla scena: "Or dunque, io, il Muro, ho qui finito la mia parte./ E avendola finita, ecco che il Muro se ne va".
       
       
Torna ad inizio pagina   Il teatro di Fanny & Alexander, un gioco tra vita e morte
      Gilberto Santini, Il Mucchio Selvaggio, numero 452, 2001
       
 

 

 

Ravennati di nascita e formazione, Chiara Lagani e Luigi De Angelis fondano giovanissimi - nel 1992 - la compagnia. Come per gioco, tra una versione di latino e un compito in classe di matematica, iniziano a tracciare un percorso destinato ad imporsi per originalità nell'asfittico panorama teatrale italiano della metà degli anni '90. In compagnia di Motus, Teatrino Clandestino e Masque Teatro divengono così in pochi anni protagonisti della ricerca di casa nostra.

Nel magico spazio di una cava di Santarcangelo di Romagna, mentre Luigi (ormai definitivamente regista della compagnia) è alle prese con i soliti problemi di fonica e luci che precedono il debutto, abbiamo rubato Chiara (drammaturga e attrice) alle prove per più di un'ora, per risalire con passo da gambero fino agli esordi, cogliendo i segni e il senso di una storia.

Partiamo dal presente, dunque da Requiem, fresco di debutto. Com'è nata l'idea di confrontarsi con questa forma, attraverso il rapporto con un compositore musicale come Luigi Ceccarelli?

L'idea di lavorare su un requiem è nata tre anni fa e non per "vocazione". E' stata Cristina Muti - sovrintendente del Ravenna Festival - a dirci: "Non vi va, dato che la musica è così importante nel vostro lavoro, di scegliere proprio una forma musicale, dunque un compositore contemporaneo, un luogo di Ravenna un po' inconsueto a vostro piacimento e inventarvi qualcosa su cui avere carta bianca?".

Abbiamo ascoltato i lavori di Ceccarelli e poi l'abbiamo incontrato, mentre avevamo individuato come luogo il cimitero monumentale di Ravenna: da quando eravamo piccoli desideravamo utilizzarlo in qualche modo. Quindi il requiem è una forma che è stata chiamata un po' dai discorsi fatti con Luigi, che era molto interessato a questo tipo di composizione con cui non aveva mai pensato di confrontarsi. E' un'idea nata come tentativo di realizzare un esperimento su stimoli esterni.

Eppure il tema della morte ha sempre avuto un ruolo centrale nei vostri spettacoli.

Certo, anche se questa volta è stato imbarazzante, perché il confronto era con due tradizioni. Venivamo dal lavoro su Shakespeare per Romeo e Giulietta, che già ci aveva costretto al confronto con una tradizione teatrale fortissima. Con il requiem avevamo addirittura due tradizioni: quella musicale e quella umana.

Ci trovavamo tra l'altro ad approntare un allestimento nel cimitero, dove noi - come tutti i ravennati - abbiamo i nostri morti. Quindi una tradizione umana pesantissima. Era la prima volta in assoluto in cui intraprendevamo un faccia a faccia così con la morte.

Abbiamo cominciato a studiare la forma "requiem", ad affrontarla per "tradirla" - visto che di tradizione si trattava -, studiando a livello retorico tutta la forma più antica, quella gregoriana. Ad un certo punto, capite le linee estetiche, gli sviluppi storici, le forme tradizionali, ci siamo detti: "E noi? Questa cosa ci scalfisce. Perché fare un requiem, anche se la morte è stata sempre così centrale? Che cosa ci chiama dentro questa cosa?".

Allora ci siamo domandati che cos'era per noi una morte. Per il singolo, per ognuno di noi. Sicuramente un tradimento, un abbandono. E' quando ti muore qualcuno, ma anche quando qualcuno se ne va. Ci sono continue morti nella vita di una persona. Ognuno di noi aveva degli esempi, anche la nostra storia di gruppo ha subito delle morti, dei tradimenti. E questo era comprensibilissimo e forse era qualcosa di cui ci andava di parlare.

A questo punto ci siamo chiesti quanto potesse essere interessante per un pubblico. Perché c'è qualcosa di estremamente volgare e di estremamente alto in questo. Se io ti racconto un mio lutto, c'è un lato di te che sicuramente dirà "è la tua vita, la tua storia, fatti tuoi", che percepisce una sorta di impudicizia nel mio raccontare. Un'altra parte di te - proprio perché è una cosa che accumuna tutti - sarà quasi morbosamente interessata, come la gente che va ai funerali pur non conoscendo il morto. A livello teatrale non è interessante raccontare un fatto, bisogna astrarlo, trasformarlo. Un mito, un archetipo riescie sempre e potentemente a fare questo.

Di qui il ricorso al mito di Psiche e Eros su cui si incentra lo spettacolo…

Infatti è la prima volta che noi ricorriamo a un mito in maniera così frontale. Perché tutte le altre volte c'erano rielaborazioni, un approccio più filtrato, più allusivo. Questa volta abbiamo scelto - e a livello drammaturgico è totalmente un esperimento - di affrontare un modello propriamente narrativo. Abbiamo preso un exemplum mitico e deciso di raccontarlo, non di usarlo, ma tentare di raccontarlo.

Questo approdo alla narratività è una novità nel vostro percorso.

Non so se sia un approdo in assoluto. Sicuramente è un confronto in questo particolare momento del percorso. Nell'ultimo anno abbiamo tentato di capire che relazione potesse esserci tra la vita privata e la messa in scena, tra ciò che ti succede come individuo e il fatto che sei un artista. Quindi necessariamente prendi delle cose dalla tua vita e le porti in scena in maniera più o meno filtrata da varie forme estetiche.

Insomma il rapporto che c'è tra la vita e quella che è invece la struttura mitica, perché c'è sempre una struttura mitica se devi dire qualcosa a qualcuno. Questa volta è stato un procedimento netto: non sono in grado di parlarti della morte, perché è veramente troppo scottante, allora prendo un mito che parla di un abbandono, di un attraversamento degli inferi e della morte, uno dei più famosi dell'Occidente. Platealmente, in maniera spudoratissima.

Addirittura lo spettacolo è diviso in due parti abbastanza simmetriche: la prima è proprio un'esposizione mitica, c'è una figura di narratore che entra in scena con un prologo, dicendo: "parleremo di questo e di questo", usando un testo baroccheggiante, scelto proprio per segnalare questa tradizione mitica. Poi la spappoleremo, però partiamo da questo. Nella seconda parte il mito si destruttura sempre più e si attua la vera e propria discesa agli inferi di Psiche. Allora anche la narrazione comincia a destrutturarsi, per cui si ha una sorta di voragine lirica, cambia lo stile di scrittura: prima dialoghi, narrazioni, monologhi, lingua più artificiosa, poi il suicidio e tutto quello che segue fino alla fine, in cui tutto è più poetico come scrittura ma anche più incombente, minaccioso.

Dopo una rappresentazione una ragazza mi ha detto "Ho avuto l'impressione che per tutta la prima parte Fanny & Alexander mi prendesse per mano per condurmi, ma ad un certo punto, improvvisamente mi sono trovata sola". Questa era l'intenzione originale, non so se funziona, ma questo era l'intento, perché è quello che capita a noi di fronte al tema della morte. Scegliamo un mito per raccontarvi qualcosa, ma quel qualcosa che vogliamo raccontarvi è lo sprofondamento stesso, per cui il mito sfugge di mano.

Nello spettacolo vi rivelate attori straordinariamente - e oggettivamente - bravi. A cosa è dovuta questa particolare cura nella recitazione?

E' soprattutto questa sorta di agone musicale che è lo spettacolo a costringerci a trovare qualcosa di davvero potente. Perché la musica di Ceccarelli è tremendamente bella, ma anche tremendamente assassina. Credimi, essere in scena con questo sonoro è davvero difficile. Io sto ancora provando soprattutto la scena con la cantante che interpreta Afrodite, ancora non mi piace… La cantante che sta lassù, sulla montagna, è insuperabile. Quindi devi elaborare anche una modalità vocale di un certo tipo. E' proprio una gara di bravura. Dall'inizio la scena tra Psiche e Afrodite doveva essere questo: una gara tra la cantante e l'attrice. C’è una prova musicale e una prova teatrale, che cosa succede? si ammazzano?

Eppure vi ho trovato a vostro agio dentro questa musica così potente, sorta di secondo elemento scenografico, imponente come il grande muro rosso che delimita lo spazio, un tappeto sonoro che completa il quadro dentro il quale l'azione può snodarsi senza cercare banali consonanze tra musica e azione. Come si è sviluppato il rapporto tra drammaturgia e musica?

E' successa una cosa che non so se voglio ripetere. Solitamente scrivo sempre in fieri, non mi capita mai di elaborare un testo e poi metterlo in scena. Le parole sono chiamate dall'azione o da un'immagine.

Invece in questo caso - non so se per la struttura di narrazione oppure perché Ceccarelli mi chiedesse i testi per la necessità di ancorare a qualcosa l'inizio del lavoro di composizione - tutta la prima parte è stata scritta molto tempo prima che noi sentissimo le musiche. Poi lui man mano ce le ridava e dunque è stata riscritta, rimangiucchiata, rimodificata: ma questo dato di astrazione iniziale io lo sento ancora e un po' mi pesa. Cosa che nella seconda parte non avviene, perché lì abbiamo lavorato insieme, gomito a gomito.

Certo ci sono stati tantissimi incontri, non è che ognuno ha fatto le sue cose separatamente, ci siamo confrontati sul clima dell'accadere scenico, sui suoni, però di fatto c'è stata una separazione che ha reso l'agone di cui parlavo prima ancora più violento.

La morte che Psiche cerca attraverso i ripetuti tentativi di suicidio ad un certo punto sembra impossibile, quasi che la vita non accetti tanto facilmente di essere abbandonata.

Nel mito c'è questa cosa bellissima: Psiche è disperata, le divinità non la aiutano, Eros è sparito, decide perciò che il suicidio è l'unica soluzione. Cerca di gettarsi nel fiume, ma le acque la respingono, poi Pan le dirà che non deve uccidersi… E' come se tutte le volte la natura - che è una natura interiore - si ripresenti sotto un'altra forma e quindi questo slancio, questa volontà di farla finita in realtà è un continuo ricominciare. L'elaborazione di un lutto secondo me è qualcosa che avviene sempre: attraversare l'inferno di una perdita e mentre si sta per cadere, accorgersi che invece bisogna risalire, che si è vivi.

Abbandoniamo il Requiem per fare un passo indietro, verso un'altra storia di amore e di morte che vi ha impegnato tra il '99 e il 2000 per il triplo allestimento dedicato a Romeo e Giulietta di Shakespeare: il doppio spettacolo allestito negli spazi di Interzona a Verona (Romeo and Juliet/Storia infelice di due amanti) e quello su palcoscenico (Romeo e Giulietta - et ultra). E' stata la prima volta in cui vi confrontavate con una fonte così nota.

Anche lì ci ha mosso un archetipo. Non perché avevamo bisogno di sceglierlo, ma perché tutti ci dicevano che lo stavamo rappresentando da quando eravamo nati. In effetti era vero, si tratta del mito più famoso che attingeva a quell'archetipo stesso e bisognava dunque affrontarlo. E c'era anche per la prima volta lo strano desiderio di un autore teatrale, cercare di capire cosa volesse dire fare i conti con una tradizione.

All'inizio è stato veramente duro, anche lì c'è stata una fase di studio molto precisa perché ti accorgi che Shakespeare lo conosci, lo straconosci, ma non veramente. Quindi inizi a leggere Romeo e Giulietta e dici: "Oddio, io questo non lo voglio rappresentare, mi fa schifo", semplicemente perché non capisci quali sono i livelli.

Poi c'è stato l’incontro fulminante con un saggio di Girard - Desiderio mimetico -, che ci ha veramente offerto delle chiavi incredibili, facendoci accorgere che lavoravamo sulle forme del "desiderio mimetico" senza averlo mai dipanato a livello teorico.

Il filo rosso dei tre allestimenti era l'ostacolo posto di fronte allo sguardo dello spettatore, reso quasi impotente da un pesante velo nero davanti alla scena. Da cosa nasceva?

La figura incombente che avevamo in testa - anche drammaturgicamente - era quella di un muro. Perciò l'idea scenografica di partenza era questo muro, lo stesso "muro degli amanti" che Shakespeare stesso - ferocissimo - autoironizza nel Sogno di una notte di mezza estate, nella scena di Piramo e Tisbe, in cui è addirittura un attore a interpretare il muro tra i due innamorati. In più nella nostra drammaturgia la figura dei due amanti era confluita in un unico attore, che dunque viveva in sé la difficoltà di una divisione.

Il buio rappresenta questa divisione continua. Romeo e Giulietta è uno spettacolo sulla sottrazione, in tutti i sensi, sottrazione dei personaggi, della drammaturgia, perché tutto è dato per frammenti, sottrazione della voce e continuamente questa frustrazione dello sguardo. Infatti quelli che non sono riusciti a entrare nel lavoro hanno vissuto questo come il limite che gli ha impedito di cogliere il senso. L'ostacolo alla visione era invece un elemento strutturale. Mentre il diaframma che governava la visione ne La Turchinità della fata era una messa a fuoco, che ti avvicinava e rendeva morbosa la curiosità di entrare, in Romeo e Giulietta semplicemente l’accesso era impedito.

Hai citato La Turchinità della fata, quindi il nostro percorso fa tappa agli inizi del '99. Anche lì la dimesione della fiaba era molto forte, soprattutto echi di quella Alice nel paese delle meraviglie che contamina anche Requiem.

Sì, Alice è proprio una nostra ossessione.

Da cosa nasceva Turchinità e la bella idea scenografica che lo connotava, il grande dieframma di ferro che continuava ad aprirsi e a chiudersi, a nascondere e rivelare allo spettatore l'interno della scena?

I primi spettacoli che abbiamo creato partivano da luoghi; è da Romeo e Giulietta - et ultra in poi che il processo è inverso, parte prima l'idea specifica, contenutistica che poi richiede un luogo.

Nella Turchinità era necessario per noi lavorare sulla ricerca claustrofobica di questa essenza immateriale che avevamo chiamato appunto "turchinità", che è l'essenza di ciò che che uno vuole, di ciò che fa, il teatro, l'arte…

Per la ricerca di questo qualche cosa era necessario creare una sorta di deformazione visiva e il diaframma serviva a focalizzare questa deformazione strana. Come in un battito di ciglia, vedere qualcosa che non era lì, un'illusione continua che diventava mostruosa, perché questa sorta di occhio immenso, quasi un occhio animale, però di ferro, quindi qualche cosa di fortemente straniante.

Un passo ancora indietro: 1998, La felicità di tutti, uno dei vostri lavori che ho amato di più. Il più "sporco", con una strana forza rimasta isolata rispetto ai sucessivi sviluppi. Costruito su una sorta di kitsch esibito, come se gli elementi che vi connotano fossero stati improvvisamente caricati di potenza, resi - anche visivamente - molto più forti.

Il nostro problema nei confronti di questo lavoro è stato il fatto che si è trattato di uno spettacolo di passaggio, in cui cominciavano a delinearsi tra noi dei ruoli più precisi che in passato.

Fanny & Alexander nasce con me e Luigi, quindi all'inizio non si trattava nemmeno di un gruppo ma di due persone, in cui tutto, anche l'occhio registico, era dentro. Da quello spettacolo aumenta il numero di persone che lavorano con noi, però eravamo ancora tutti dentro, senza la consapevolezza che questo non poteva succedere. Di lì l'uscita di Luigi dalla scena come attore. Da sempre io mi occupavo dei testi, Luigi più della visione scenografica, delle luci e c'era un continuo scambio tra queste due funzioni.

Ne La felicità abbiamo sentito che c'era un vuoto, un abisso tra quello che era la drammaturgia e la regia, tra la mia figura e la sua. Eravamo sopraffatti dalla mancanza di lucidità esterna, per cui nessuno poteva dire dov'era la fragilità del lavoro. Allora, piuttosto che prendere lo spettacolo e ricostruirlo abbiamo preferito virare direttamente da un'altra parte. Anche perché lì stava un punto nodale per noi e ci faceva un po' male riprenderlo e riaffrontarlo. In realtà io sono legatissima a quel lavoro, perché mi ha fatto capire cose fondamentali a livello di riferimenti. E le osservazioni che fai le condivido perfettamente…

Era una sorta di bazar anarchico, un arsenale delle apparizioni…

Forse le cose più estreme nascevano anche dal fatto che ognuno, nella sua direzione, veramente è andato più oltre. Nel momento in cui devi avere un equilibrio tra tante cose, c'è qualcuno da fuori che tiene le fila e i ritmi, forse non è possibile estremizzare così tanto alcune parti. Il lavoro era scoppiato in tante direzioni, frantumato, ma non la frantumazione come metodo di lavoro, ma reale, strana.

Comunque a me manca Luigi in scena, con la sua capacità magnetica di recitare con tutto se stesso. Avrete guadagnato un regista, ma avete perso un ottimo attore.

Io penso che ognuno debba divertirsi il più possibile e lui si diverte molto così. Magari gli mancano delle cose del fatto di stare in scena, però era entrato davvero in una sorta di corto circuito, in cui lo sguardo esterno e lo sguardo interno erano talmente aggrovigliati e sovrapposti che lo facevano esplodere. Io, da quando Luigi è fuori, sono rinata, posso pensare a me come attrice.

E' importantissima questa dimensione quasi animalesca dell'attore, che fa, si stanca, si estenua sotto la guida di qualcuno, a cui può abbandonarsi. E' una cosa che fa parte dell'erotismo del lavoro dell'attore che non conoscevo. Luigi dice una cosa bellissima, che ha sempre degli oggetti di identificazione in scena, altrimenti non potrebbe divertirsi, che sono magari un personaggio o un altro, oppure il corpo intero dello spettacolo. Pilotare questa grande macchina è come essere in scena, è una propaggine del suo corpo.

Eccoci arrivati: 1996, Ponti in core. Non il vostro primo spettacolo, ma certo il momento di massima esposizione pubblica di Fanny & Alexander. Lavoro che - con i coevi spettacoli di Motus, Teatrino Clandestino e Masque Teatro - ha l'onore/onere di aver permesso alla critica di identificare in Italia un nuovo fenomeno, quello della cosiddetta "terza ondata". Come avete vissuto la sovraesposizione sui massmedia che ne è derivata?

Quando è successo tutto il fenomeno "teatri '90" ci siamo resi conto che per noi poteva significare far uscire finalmente il nostro lavoro da una sorta di nicchia in cui aveva preso avvio. Abbiamo avuto la fortuna che Ponti in core fosse uno dei nostri spettacoli più riusciti in assoluto, non necessariamente quello che amo di più, ma è uno di quegli spettacoli che nascono e sono come una perla. Eppure era un lavoro molto semplice:aveva un'idea scenografica sicuramente fortissima (un teatrino anatomico circolare di metallo, capace di contenere una ventina di spettatori), io e Luigi a livello attoriale avevamo davvero una grande semplicità. Forse funzionava proprio il fatto che due adolescenti si mettessero lì con le loro caratteristiche, dicendo "Cosa sono io? Non ho nulla, non ho esperienza, non so nulla, però vi do tutto, fino in fondo".

Abbiamo avuto molta fortuna a capitare in un momento di così grande amplificazione con uno spettacolo che aveva questa caratteristica di onestà. L'ispirazione iniziale era appunto quella del teatro anatomico. Fino agli inzi del '900 la gente andava nei teatri anatomici ad assistere alle pubbliche notomie, pagando come quando si va a teatro. E' importantissimo questo contratto, che uno paghi a teatro per vedere la vivisezione di un corpo. Ponti in core è il nostro spettacolo in cui si riflette di più sul contratto, c'è una voce assillante, quasi da visita turistica, il fatto di pagare, prendere il proprio posto. Poi si è sovrapposto un universo mitico, da fiaba: siamo due attori, chiamiamoci con due nomi per giocare al gioco del teatro. Se ci pensi accade veramente poco, è continuo gioco.

Tanto eravate giovani quando si è detto e scritto "questo è il futuro del teatro italiano", tanto continuate ad essere giovani in questo momento, in cui tutti aspettano la prova della maturità. Quanto ti senti addosso in termini di responsabilità?

Se ci penso mi viene paura, soprattutto nel momento di un debutto in cui sei fragilissimo. Tutti ti guardano - chi massacrandoti ferocemente, chi magari amandoti - e lo sguardo è sempre tremendo, sia nell'amore sia nella ferocia. Io penso che bisognerebbe cercare sempre di tenere in mente la propria responsabilità interna, nei confronti del proprio lavoro. Questa responsabilità diventa anche quella esterna. Non è semplice, perché i condizionamenti sono tantissimi, devi calibrare sempre l'esterno con un ascolto tuo interno, tutto unito alla fatica, la perdita di lucidità che inevitabilmente accompagna ogni debutto.

Come vi è venuto in mente, giovanissimi, di fare non solo teatro, ma questo tipo di teatro?

Innanzitutto siamo nati a Ravenna, dove c'è il Teatro delle Albe di Marco Martinelli e Ermanna Montanari. Luigi frequentava i laboratori teatrali di Ermanna al Liceo Classico, dove studiavamo entrambi. Io ogni tanto andavo a vedere le prove. Un giorno - io scrivevo, semplicemente perché mi divertivo a farlo - durante un intervallo dissi a Luigi "Ho scritto questo testo, mi piacerebbe che tu lo leggessi". Poco tempo dopo, suona la campanella, lui arriva e mi dice "Dai, facciamolo". Così abbiamo cominciato. E' nato come un gioco, non avrei mai pensato di fare teatro nella mia vita.

A cosa tiserve oggi fare teatro?

Mi sono trovata a farlo, quindi continuo così. Non è che non ci sono momenti di crisi, perché è un lavoro micidiale, che ti costringe sempre a guardarti, a metterti in discussione, ma questo è secondo me il motivo per cui continuo a farlo. Perché se dovessi immaginare qualsiasi altra cosa sarebba staccata dal mio modo di essere. Mi diverto in questo continuo guardarmi dentro per capire cosa c'entra con quello che sto facendo. Non riesco ad immaginare un altro lavoro in cui questa disciplina feroce, ferocissima, diventa uno stato di libertà.

       
       
Torna ad inizio pagina   "Romeo e Giulietta": tutti pazzi per la coppia
      Rossella Battisti, L'Unità, 27 febbraio 2000
       
     

Romeo e Giulietta – et ultra: la fascinazione di Shakespeare colpisce ancora e arriva alla terza generazione del nuovo teatro, quello post-ideologico di Fanny & Alexander, misterioso giovane duo che dal ’92 maschera la propria identità sotto un nome bergmaniano per raccontare un universo fiabescamente inquietante, giochi di bimbi strani tra sogno e realtà. Approdato alla Biennale di Venezia, il gruppo di Ravenna ha elaborato la propria rivisitazione di Romeo e Giulietta, che debutterà in giugno a Venezia, mentre in questi giorni viene data in anteprima presso gli ex Magazzini Generali di Verona. Li abbiamo raggiunti via telefono per farci raccontare la loro avventura shakespeariana di giovani ribelli del nuovo teatro.

Perché anche un giovane gruppo d’avanguardia sente il bisogno di misurarsi con il Bardo e perché “Romeo e Giulietta”, che forse ne è l’opera più frequentata?

Effettivamente è la prima volta che ci confrontiamo con un autore classico. I nostri precedenti lavori si basavano su testo e drammaturgia totalmente inventati da noi. Però la scelta di Shakespeare e di questo dramma è stata abbastanza casuale: quello che ci ha attirato è il mito specchiato dei due amanti. Da sempre lavoriamo sulla figura del doppio, dal nostro esordio con gli amanti di Cantico, alla statuina degli sposi nella Turchinità della Fata. E Romeo e Giulietta era la coppia più bella di amanti. Un incontro inevitabile.

E come è andato questo incontro?

All’inizio siamo stati travolti dal bagaglio di peso acquisito da quest’opera. Una storia talmente conosciuta da diventare banale, amanti da bacio perugina. Occorreva penetrare la cortina delle tante interpretazioni per ritrovare un’urgenza reale di lettura del testo. La giusta chiave di lettura ci è venuta alla fine di un testo di René Girard, Il teatro dell’invidia, che ipotizza una strategia mimetica dietro alla storia. L’interesse verso i due amanti si concentra così nel loro precipitare verso la propria distruzione, motivata da elementi retoricamente ingigantititi, dalle fazioni al padre, all’equivoco finale. Come già nel Priamo e Tisbe nel Sogno, Romeo e Giulietta non sono ostacolati da nulla se non da “vuoti spauracchi” funzionali allo sviluppo della tragedia.

E arriviamo a “Romeo e Giulietta” visti da Fanny & Alexander…

Non li usiamo come personaggi, ma come figure. Romeo e Giulietta sono una figura unica, talmente identici nell’impossibilità di portare avanti il loro desiderio da venir rappresentati da un solo attore. Poi ci sono la figura del potere (padre), della ferocia (Tebaldo), della retorica (Mercuzio) e così via. Cinque attori in tutto i cui movimenti vengono raccordati da due “alfieri”. La scena, invece, è divisa in due ambienti: lo spiazzo retorico, dove gli attori aspettano di entrare nella faida, e il luogo della luccicanza, un niente fatto di luci che potrebbe essere tomba o palazzo.

Il vostro intervento incide anche sul testo di Shakespeare?

Lo abbiamo solo ricucito usando stralci da altre opere, anche per evidenziare questo filo conduttore della strategia mimetica. Il bello è che alcuni spettatori ascoltano un brano e credono di ricondurlo a Romeo e Giulietta, mentre magari si tratta di un estratto dal Sogno.

Ripeterete l’esperienza?

Oh sì, abbiamo già in progetto un lavoro su Riccardo III.

       
       
Torna ad inizio pagina   Niente è più grosso e più dolce di due...
      Francesco Scarpelli, Intervista, numero 17, 1999
       
     

Uno dei vostri spettacoli aveva per titolo Sinfonia Majakovskiana. Ponti in core, che avete portato al CRT di Milano, riprende molti versi della Cvetaeva tra cui il celebre: "Niente è più grosso e più dolce di due fragole di cimitero". Sembra che i russi del Novecento esercitino su di voi un forte richiamo...

Prima due citazioni: "C'è un paese, Dio, con esso la Russia confina", Rilke. "Su questa Russia puntano i poeti. Sulla Russia tutta. Ma anche la Russia non è sufficiente. Ogni poeta, anche quello che vive in Russia, dice un'unica cosa. E quell'unica cosa resta sulla superficie, sulla pelle del mondo, esattamente come lo stesso mondo visibile resta sulla superficie, sulla pelle del poeta. Tutto dipende dai punti di vista. In Russia mi capiranno meglio. Ma all'altro mondo mi capiranno ancor meglio che in Russia. La Russia è solo il limite estremo della facoltà terrestre di comprendere, oltre questo confine - la sconfinata facoltà di capire la non-terra", Marina Cvetaeva.

Ma tornando a questa terra: il richiamo che un artista esercita su un altro artista. La timidezza di un artista di fronte alla sua opera fa dimenticare che forse non è lui che l'ha fatta, non del tutto. Oppure: il richiamo che un artista esercita sulla moltitudine, e in particolare un artista del Novecento russo. E' come un fedele udito senza orecchie. Il resto è questione di gusti e inclinazioni private, e come tale ha una rilevanza diversa che pertiene all'amore per un certo tipo di arte, ma non c'entra sempre con l'uso che se ne fa nelle proprie opere.

Per questo posso confidare in segreto che Marina Cvetaeva avrebbe voluto giacere nel cimitero di Fanny & Alexander, e che mentre Vladimir Majakovski premeva il suo grilletto lirico, altrove e in altri tempi, Teatrino Clandestino e Fanny & Alexander innalzavano fondali di piombo per la loro sinfonia, scritta per Centocinquantamila milioni di uomini bestie animali...

La scrittura: in che rapporto si pone per voi con gli altri elementi della scena, la voce, il gesto, la presenza degli attori e della scenografia?

Fatichiamo a parlare in astratto della scrittura scenica, perché essa dipende a tal punto dal tipo di lavoro, che possiamo fare degli esempi. In Ponti in core la parola si pone subito in una relazione particolarissima con gli altri elementi della scena: in primo luogo istituisce il contratto iniziale, per cui lo spettatore-turista è ammesso nella casa come presenza episodica. Si presenta subito come la gigantesca figura retorica che detta le regole del gioco. Inoltre la parola qui esce direttamente dal teatrino metallico che custodisce i due abitanti, Dorotea e Cipresso, e li espone alla pubblica vista.

Fanny & Alexender porta lo spettatore all'interno di un orecchio, lo stesso teatrino ovoidale, avvolto da suoni. Fanny & Alexander parla a se stesso dentro il proprio orecchio. Il senso di ripetizione e di sospensione qui è dato dall'affidamento quasi totale dell'azione drammatica a un sonoro preregistrato, che sottrae dall'immediato e proietta i corpi degli attori in una dimensione museale, da teca. La voce è concreta, essendo la voce stessa del teatrino (o di chi ha fatto del teatrino il suo business?).

Dorotea e Cipresso, invece, parlano pochissimo, tengono due microfoni al dito come preziosi anelli, o al collo, le loro parole escono distillate, rare, contro al flusso preregistrato che, rivolgendosi direttamente allo spettatore, racconta, fra stillicidi e battiti, del cuore blu di Dorotea, dei grilli d'oro di Cipresso, del sangue dei due venduto a prezzo di fragole... L'uso della narrazione favolistica, è una forma di sovrapposizione onirica, atto mistificatorio per eccellenza, in cui è immersa la lenticolare, minuta, sopravvivenza di un illusorio presenziare più che di una presenza.

Questa scrittura assume qui il patetico come categoria. Il patetico o pathos è un sistema di implosioni da cui gronderà infine un esito. E certo una sorta di senso della morte ha a che fare col patetico. Il patetico è un'ossessione, e ricerca la bellezza estetizzante dell'incrinatura sentimentale. Fanny & Alexander sceglie uno stereotipo simbolo: il CUORE. Nel patetico il simbolo cuore perde la valenza simbolica, ritorna oggetto, ornamento o decoro che porta su di sé il ricordo ombra di un universo organico-biologico. E il sentimento glissa nel sentimentalismo, inavvertitamente, indugiando su questa strana linea d'ombra. Questo è ciò che nel patetico definisce sentore di morte. Fanny & Alexander sceglie il cuore "perché è bello" dice, perché la bellezza potentemente ruba gli occhi, distrae.

Per La felicità di tutti invece, si è tentato di lavorare sul romanzo ispirato a Ronald Firbank, scrittore elegantissimo che gioca con la frivolezza. Qui il racconto è fatto di grandi lacune di un silezio non reale, ma che si costituisce come atmosfera in maniera pignola e pettegola, adoperando i frammenti della narrazione come melodioso orpello e le stesse parole come insetti lessicali, prodigiose rarità. La felicità parla di un lungo preparativo alla morte come luogo di non superabile mondanità: il testo è una artificiale distrazione verso l'irrilevante ma prezioso, è il mezzo con cui volutamente l'attenzione viene spostata a lato, non sull'evento ma sulla periferia della sua evanescenza.

Le tre figure pressoché inesistenti, una stilista fata principessa, la baronessa sua sodale e il burattino modello, sono in precaria relazione con le parole, che non possono che portarsi addosso con immateriale vanità, così come si porta un abito sulla passerella-scenografia. Le scene poi, vengono continuamente evocate dal testo, necessitano del testo per entrare in relazione di continuità con ciò che resta sotto, o sopra. E infine la felicità non conclude, resta irrisolta, finisce per non muovere in nessuna direzione: "e ci irride se per un attimo abbiamo creduto che non fosse, quella una storia di puri suoni".

Con poche eccezioni, il teatro di questo secolo ha abbandonato l'ambito narrativo per incontrare territori più suggestivi e contaminati. Il vostro lavoro si inscrive in questa traccia?

Dipende da cosa intendi per ambito narrativo poiché, per noi, è uno degli ambiti già contaminati e suggestivi per eccellenza. In realtà nei lavori di Fanny & Alexander esiste quasi sempre una narrazione che è il nucleo favoloso del gioco, della situazione, del lavoro. Ha anche a che fare con la visione, con le luci, con la colonna sonora e con il testo, è in rapporto stretto con la scelta drammaturgica che di volta in volta viene fatta: è un contesto, il racconto che Fanny & Alexander dà a se stesso prima di iniziare il suo gioco, o mentre gioca, oppure molto dopo.

Infatti la narrazione, essendo al contempo esilissima e assai spessa ha il potere di frammentarsi, di essere messa in relazione al senso o al non senso, di innervare di sé uno spazio - condizionandolo e ponendosi come contratto percettivo per lo spettatore - di sparire completamente se serve, o farsi traiettoria estensiva o intensiva di un percorso singolo che rimanda anche ad un percorso più vasto. Un percorso che, poiché diverte nel senso alto e porta a compimento uno snodarsi e annodarsi di rapporti assai complicati, forse ha anche a che fare con la ragione per cui continuiamo a lavorare, la quale non può che restare avvolta nel mistero di quanto uno fa in stato d'amore.

Molti vi associano più alle vostre performance al Cocoricò e in altre discoteche della riviera che non agli spettacoli fatti in teatro. Come è nata la scelta di proporre la forma della performance teatrale in luoghi normalmente destinati ad altro?

Chiariamo l'equivoco, una volta per tutte: Fanny & Alexander non ha mai lavorato in discoteca. Fanny & Alexander è un corpo variabile le cui membra hanno avuto momenti di trapianto esterni. Alcuni degli attori in maniera assidua, altri in maniera più discontinua hanno collaborato con Gerardo Lamattina, regista ravennate, che ha fondato nei primi anni '90 Teddy Bear Company, una compagnia di teatro da discoteca, nata al Cocoricò, a Riccione e poi pluricopiata nel resto d'Italia.

E' stata una grande palestra attoriale, un laboratorio anomalo e sempre stimolante, nonostante gli intenti dichiaratamente prostitutivi e mercenari di tutti. Teddy Bear Company è stata mecenate di Fanny & Alexander per l'acquisto di molta parte del materiale tecnologico tramite il lavoro e il guadagno dei suoi soci o attori, che facevano anche parte di Fanny & Alexander. Nella motivazione del premio Coppola Prati 1997 vinto da Fanny & Alexander c'è un brano significativo: "Ma quando Fanny & Alexander smettono di far spettacolo del loro fascino, a volte uscendo dallo specchio di Alice, nell'oscurità della notte cara a Mr. Hide, taluni di loro si trasformano e, sotto il nome di Teddy Bear Company, infestano di presenze funerarie spazi dediti al peccato discotecale; ed eccoli, come disinvolte etere, attingere in tali sedi, grazie alla mera esibizione passiva dei corpi il "cum quibus" in grado di permettergli di giorno di riassumere, con ironia, le sembianze, il ruolo e il gioco dei deliziosi Fanny & Alexander..."

Proprio in relazione a queste performance, alcuni detrattori vi accusano di "copiare", di volgarizzare, i lavori di artisti degli anni Sessanta e Settanta. Mi riferisco alle performance con gli insetti, per fare un esempio, Come vi difendete?

Qualsiasi materiale, qualsiasi oggetto o animale diventa interessante se lo si pone in relazione allo stare in scena. L'insetto è il secato per eccellenza, il Cristo degli animali, l'essere più resistente della terra... E poi brulica nelle/nei CA(se)DAVER(m)I, in quei luoghi fertilissimi di putredine dove in realtà non c'è morte ma solo vita. L'insetto è l'Attore e insieme l'Anarca.

La cosa che dà più fastidio ai detrattori della Teddy Bear Company è l'aver eliminato ogni significato o connotazione esistenzialistica dalle performance con gli insetti, e l'aver portato a un livello di normalità performance che apparivano come segni autolesionistici. Il ragazzo che si decompone pubblicamente un poco annoiato in una teca in mezzo a migliaia di mosche che bevono dalle sue labbra e cavallette che dormono sul suo pube, è l'immagine di: 1) un attore che lavora per ricevere il suo compenso; 2) un attore che si diverte nel gioco voyeristico ed espositivo del proprio corpo: 3) un attore che tempra i suoi nervi: 4) un attore che si diletta da tempo di entomologia.

Il ladrocinio è una tecnica antichissima: Fanny & Alexander è maestro di ladrocinio a 360 gradi e se ne fa vanto. Teddy Bear Company ha dichiarato da sempre i suoi intenti mercenari: da qui la rapina esplicita di tutto quello che poteva essere settimanalmente utile per le richieste di mercato, cadendo anche nel più commerciale dei livelli. Al di fuori di ogni sguardo morale su qualcosa che non vuole essere Arte (e soprattutto consolatoria...) ma business. E ne parliamo con la convinzione delle puttane "alle quali io mi dico imparentato, per meschinità, frigor intimus, serpentesca solitudine."

       
       
       
     

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